Senza capitale sociale i conti si sbagliano
È triste pensare che la Fiat consideri possibile lasciare l’Italia come sua base produttiva principale. Le imprese sono organismi vivi, che vivono nei territori, si nutrono delle sue sostanze, crescono e muoiono con essi. La Fiat, come tante imprese italiane piccole e grandi, è stata capace di crescere e di svilupparsi non solo e non tanto per la genialità degli imprenditori e dei tecnici, ma anche, e soprattutto, grazie ad un intreccio di cultura sociale, codici simbolici, valori, che ha creato valore.
Il luogo creatore di valore non è mai la singola fabbrica, ma il territorio naturale e sociale. La Fiat può anche spostarsi da un’altra parte, ma sarà un’operazione molto pericolosa, almeno quanto il trapianto di una pianta da un luogo ad un altro. Un’impresa fa uso di tutto un insieme di saperi taciti, di mestieri, di arti, di storia, che non sono facilmente traducibili in una trimestrale, ma che sono realissimi almeno quanto i capitali tecnici e finanziari.
Qualcuno chiama tutto ciò capitale sociale, per mettere in luce la capacità produttiva di queste dimensioni immateriali. È certamente un capitale, ma non solo sociale, poiché è fatto anche di dimensioni etiche, spirituali, relazionali, quel patrimonio di virtù civiche che è stata una delle ricchezze della nostra tradizione e cultura. Negli ultimi anni alcuni elementi di questo capitale si sono deteriorati, ma ancora la Fiat vive e cresce per quel sapere diffuso e quella cultura dei territori torinesi, dei suoi artigiani e dei suoi tecnici, che la Fiat farà molta fatica a ritrovare e a ricreare da un’altra parte.
È mia impressione che Marchionne, anche per la sua formazione e storia, non veda abbastanza questa forma di capitale immateriale, e quindi faccia male i conti quando pensa che sarebbe più efficiente spostarsi. Se la Fiat deciderà di investire in Italia non deve essere principalmente per ragioni di riconoscenza nei confronti dell’Italia del passato e dei soldi e sostegno che ha avuto in questi cento anni: nella contabilità di questo secolo e oltre di rapporto tra Fiat e Italia ci sono entrate e uscite da ambo le parti, e non so dire quali siano maggiori.
La Fiat deve rimanere se non vuole perdersi, perché – ce lo dice la storia – le imprese muoiono quando perdono un aggancio a una storia e a un humus, a meno che non siano capaci di reinventarlo (e con una storia di un secolo reinventarsi un’identità totalmente nuova è operazione ardua, forse impossibile). Il futuro della Fiat è legato al futuro dell’Italia. Mentre non è vera l’affermazione simmetrica, perché la Fiat occupa in Italia, compreso l’indotto, non più di 100 mila lavoratori, circa un ventesimo dell’economia sociale, e forse un cinquantesimo della piccola e media impresa. L’Italia tratterrà la Fiat non invocando la riconoscenza, ma solo ricordando questi semplici princìpi dell’economia del buon senso.