Sentieri di speranza al Genfest in Brasile
Cosa è stato per me il Genfest? Un’esplosione di vitalità, impegno, desiderio di unità. Un patto non scritto tra migliaia di giovani di tutte le culture. Affinché la nostra vita testimoni che il mondo unito già esiste.
Ogni 6 anni, il Movimento dei Focolari organizza il Genfest, un grande evento di incontro e condivisione per giovani di tutto il mondo. Nel luglio del 2024, il Genfest si è tenuto in Brasile, nello stato di San Paolo, ad Aparecida, e ha coinvolto più di 4.000 giovani tra i 18 e i 35 anni. È stato organizzato in fasi; la prima consisteva in esperienze di volontariato di varia natura nel continente sudamericano, la seconda e la terza fase sono state il vero e proprio Genfest ad Aparecida.
Io sono partita da Roma l’11 luglio 2024, assieme a un centinaio di altri giovani dall’Italia. Questa è la mia esperienza dei giorni passati ad Aparecida.
Fase 2
Il mattino del 19 luglio 2024 si presentava caldo e terso. Entrando ad Aparecida in pullman, insieme ai ragazzi con cui avevo vissuto la Fase 1 del Genfest, per intrattenere il tempo cantavamo i motivetti più disparati, samoani, australiani, italiani. Venivamo da una settimana di esperienze intense nelle tre sedi della Fazenda da Esperança di Guaratinguetà, a soli 10 km di distanza, e ora eravamo pronti ad affrontare l’esplosione di vitalità delle fasi 2 e 3.
Dal finestrino del pullman ho gettato la prima occhiata al santuario di Nostra Signora Aparecida, principale luogo di culto mariano del sud America. Si staglia imponente al centro della vallata del Rio Paraìba do Sul, con la grande cupola e l’inconfondibile mattonato rosso. È circondato da strade ampie, mercati di capannoni bassi, hotel di lusso accanto a edifici più poveri, incompleti o usurati dal tempo.
Verso nord-est, il lungo ponte sopraelevato percorso ogni giorno da pellegrini e turisti. Migliaia di loro hanno legato alle balaustre blu bracciali di tessuto colorato, con scritte sopra preghiere o frasi devozionali. Si muovono, colorati, al vento, simili alle bandierine in cima ai monti dell’Himalaya. Anche noi, qualche giorno dopo, avremmo legato alle balaustre qualche bracciale con su scritto “Juntos para cuidar”, il motto del Genfest.
Verso est la funivia che porta alla terrazza panoramica. Verso sud il grande parcheggio per i pullman, il centro commerciale pieno di luoghi di ristorazione e negozi di souvenir. E ancora più a sud, ai piedi del pendio, il Centro Eventi Padre Vitor Coelho de Almeida, che dal 19 al 24 luglio si è vestito dei colori e dell’entusiasmo del nostro Genfest. Momenti di generatività, celebrazione e dialogo ce lo hanno reso “casa” per una settimana.
Tutto attorno, un pendio dolce, erboso e pieno di palme isola il santuario dal resto del mondo. Con questa conca naturale, la terra sembra tenere il santuario come una perla al centro del proprio palmo. Abbracciati dai pendii, siamo entrati anche noi nella culla mariana di Aparecida, con il cuore in festa.
Scesi dal pullman e pronti a perderci nella folla, ci siamo avviati al check-in. Il caldo iniziava a farsi sentire, le valigie un po’ ingombravano, un po’ davano sostegno nell’attesa. Man mano che i partecipanti da tutti i Paesi ritiravano trionfanti il cartellino che dava loro l’accesso ai locali, l’atmosfera si faceva più festosa. Nel pomeriggio, l’esterno del Centro Eventi si è riempito di balli e musiche di varie culture. Eravamo stanchi dalle lunghe attese, alcuni di noi in balìa del jetlag, accaldati, disorientati, confusi, ma i nostri volti si accendevano a ogni sguardo, a ogni sorriso, e pur di manifestare l’entusiasmo di essere lì scoprivamo di avere risorse di energia inesauribili.
Qualche pellegrino, incuriosito, si avvicinava a chiedere informazioni e io, come molti altri, rispondevo in un idioma tutto nuovo, un po’ portoghese, un po’ italiano, con qualche parola di spagnolo inventato e pezzi in inglese ogni tanto. Una lingua di sincretismo e sopravvivenza, di volontà di comunicare, anche a costo di uscire dalla propria sfera di comfort e sembrare un po’ buffi.
Insieme, ci prendevamo cura l’uno dell’altro anche in questo: in fila per ordinare un pastel, una gen brasiliana mi ha aiutato a pronunciare bene queijo. Al banco dei pasti vegetariani, una gen argentina ha tradotto in spagnolo per un gen brasiliano una parola pronunciata in italiano. Una catena linguistica, immagine della catena di relazioni umane che stavamo costruendo.
La prima sera nell’auditorium del Centro Eventi una grande festa musicale e culturale ha dato il via alle celebrazioni, con una ricchissima sfilata di esibizioni da tutta l’America latina. Il mio cuore ha esultato durante il canto e il ballo degli amici argentini con cui avevo condiviso la Fase 1 e che, nelle sere umide di Guaratinguetà, mi avevano insegnato il cuarteto. Incantata dalle danze, dai costumi e dai canti, ho lasciato il Centro Eventi con un forte senso di gratitudine e fascino. Questo mondo latino, così lontano e così vicino, oltreoceano ma dallo spirito tanto vitale da superare le distanze, si stava popolando di volti e di anime amiche. Avvertivo la preziosità di quanto stavo vivendo e, pienissimo il cuore, concludevo quella prima giornata di festa.
Sabato 20 abbiamo dato il via al vero e proprio Genfest, con tanto di sigla e diretta streaming trasmessa in tutto il mondo. 52 i Paesi presenti, sia sul palco che nella platea. Nonostante il freddo inaspettato della mattina, abbiamo partecipato con entusiasmo al programma, bardati nelle bandiere e in qualunque tessuto avessimo a portata di mano. Le testimonianze e le esibizioni ci hanno intrattenuto per ore, poi la platea si è divisa in vari pathways. Nella grande arena, un momento prezioso di preghiera interreligiosa; al piano inferiore, incontri di varie tematiche: dal rapporto tra ecologia e politica, alle sfide dell’intelligenza artificiale. Le attività riempivano le sale, i corridoi e perfino i locali adiacenti alla basilica, a un paio di chilometri di distanza dal Centro.
Già in questa prima occasione sono venuta a patti con un aspetto importante di questo Genfest: il dover scegliere. Avvertivo che la ricchezza era ovunque, ma ero costretta a sceglierne per me soltanto una parte. Tutto ciò che avrei “perso”, lo avrei visto riflesso (e, oggi lo so, anche moltiplicato) nelle persone che avevano scelto pathways diversi dai miei. Così, in modo complementare, tracciavamo ognuno la propria traiettoria tra i locali di Aparecida.
La mattina ho scelto di approfondire le tematiche dell’intelligenza artificiale con Fadi Chehadé, ex CEO di ICANN; nel pomeriggio, ho assistito all’incontro “Women in dialogue” tra Margaret Karram (presidente del Movimento dei Focolari), Silvina Chemen (rabbina argentina) e Israa Safieddine (studiosa di islam shiita e parte del progetto “Wings of hope”). Le tre religioni monoteiste riunite nella profonda amicizia e sorellanza tra queste tre donne. È stato prezioso poter ascoltare come si confrontano con le sfide del presente e come dedicano la loro vita a porre in primo piano la ricchezza (non senza difficoltà) del rapporto tra persone e tra religioni.
Il panel mi ha fatto avvertire quanto questo Genfest non fosse lontano dalla realtà, un’utopia per una manciata di giovani, ignari di cosa significa veramente “stare nel mondo”. Al contrario: i partecipanti, gli ospiti e gli organizzatori del Genfest guardavano il mondo dritto negli occhi, ne comprendono le difficoltà, le sfide, la disillusione.
E poi, con un grande atto di volontà, di “spirito di iniziativa”, vi si immergevano per poterlo rendere migliore, per parlare di unità lì dove regna divisione. Per vivere l’amore e portarne testimonianza nei cuori disillusi.
Nel loro panel, Margaret, Silvina e Israa hanno bilanciato potenza e gentilezza, mostrando con semplicità se stesse e ciò che, con il loro servizio e le loro responsabilità, rappresentano. Il mondo unito, ne ricevevo ulteriore conferma seduta sulle sedie di plastica blu della Sala 5, già esisteva, e viveva nelle tre persone che parlavano al microfono davanti a me. Ma viveva anche nelle due giovani gen che moderavano il panel, in tutta la sala piena di ascoltatori attenti, nella stanza delle traduzioni. E viveva anche nel paesaggio che ci circondava e che, a mia insaputa, in quei momenti stava vivendo uno spettacolare e dolceamaro incendio.
Uscita dal Centro, infatti, mi ha sorpreso la notte (con il suo arrivo invernale da emisfero australe) e una linea luminosa infuocata in tutta la zona est della vallata. Si trattava di un incendio a regola all’interno di un terreno privato. Non seppi cosa pensare, ancora non so cosa pensare, dato che non conosco le ragioni di quell’evento. Tuttavia, la mia breve esperienza in Brasile è stata anche questo: lasciare che le cose accadano, anche quelle che sembrano non dover accadere, perché il presente è vario e contraddittorio. E in questa contraddizione fare del mio meglio per portare la cura e l’attenzione all’altro, camminare intessendo le maglie di quelle che, nella terza fase del Genfest, abbiamo chiamato United World Communities.
Dopo una seconda parte di programma comune sul palco, quella sera il Gen Verde si è esibito in concerto. Canti e balli a non finire hanno rilanciato ancora una volta la gioia condivisa dell’essere lì, insieme. Abbiamo cantato a squarciagola per ore, riparati dal freddo nella folla danzante, facendo il tifo per le pope e per i giovani talentuosi sul palco che avevano dedicato il tempo della loro Fase 1 a preparare questi momenti per tutti noi.
Il giorno seguente, domenica 21, nella mia memoria è “il giorno delle bandiere”. Una sfilata per la pace, con portabandiere da tutto il mondo, ha percorso i due chilometri di centro commerciale e parcheggi dal Centro Eventi alla piazza del colonnato sud della basilica di Aparecida. Sotto la scritta paolina “Acaso não sabeis que sois templo de Deus e que o Espírito de Deus habita em vós?”, ovvero “Non sapete che siete tempio di Dio e che lo Spirito di Dio abita in voi?”, (1 Cor 3,16) ci siamo riuniti per una grande foto. Mischiata nella folla, non era importante che mi si vedesse, ma che il mondo intero avesse la percezione di quanti siamo a credere nel mondo unito, a fare della cura l’uno verso l’altro e verso il creato la nostra missione.
Siamo poi entrati nella basilica, già piena zeppa di fedeli e, negli spazi laterali dei quattro imponenti bracci della chiesa a croce greca, abbiamo passato un’ora di meraviglia per le vetrate colorate, per i mosaici luminosi. Abbiamo offerto qualche bracciale colorato “Juntos para cuidar” ai giovani e alle famiglie che, accanto a noi, ascoltavano la messa. Non hanno rifiutato.
Durante la pausa pranzo, su un prato piacevolmente ombreggiato dalle palme, ho “recuperato” un workshop tenutosi il giorno prima sull’amicizia tra Carlo Grisolia e Alberto Michelotti. Insieme ad alcuni gen dall’Argentina, abbiamo letto le lettere che i due giovani torinesi si scrivevano a vicenda e che scambiavano con Chiara Lubich. Desideravo… mi sento di dire, desideravamo anche noi scriverci lettere che terminassero con un sentitissimo “Uno”. La semplicità del nostro stare insieme era segno di quanto, senza pretese di grandezza, ma in modo molto tangibile, cresceva anche in noi il senso di “essere uno con l’altro”. Così, a Genfest ultimato, ci siamo scritti – su bigliettini da infilare nella cover del telefono – “Uno”.
Fase 3
Nel pomeriggio, lancio delle United World Communities. Memore della pienezza dell’incontro “Donne in dialogo” del giorno precedente, ho scelto di partecipare alla community “Dialogo e intercultura”. È necessario menzionare anche le altre communities: Economia e Lavoro; Pace e diritti umani; Ecologia, sport e salute; Politica e cittadinanza attiva; Comunicazione e Media; Educazione e ricerca; Diritto; Arte e impegno sociale. Un ventaglio di opportunità, che ha seminato in ognuno dei partecipanti speranza, innanzitutto, e volontà di agire per il cambiamento. Sono state più di cento le persone di altissimo livello umano, esperienziale e professionale che hanno fatto parte dell’équipe organizzativa.
Ho passato i due giorni seguenti (la Fase 3 del Genfest) in una dimensione più raccolta, in una sala con un centinaio di persone piuttosto che nell’arena con migliaia. La ricchezza, anche in questo caso, è stata abbondante, percepibile, travolgente. Ricchezza già soltanto linguistica ed etnica, alla quale si è aggiunta la ricchezza di contenuto e di esperienze.
Dopo un interessante dialogo tra Silvina Chemen, Israa Safieddine, padre Bizon (cattolico) e il pastore presbiteriano José Roberto, anche balli-preghiere indù, danze collettive, meditazioni, esperienze di persone afrodiscendenti, laboratori di artigianato quechua. E ancora, l’incontro con associazioni che si spendono ogni giorno per il dialogo interculturale e interreligioso in tutta l’America latina, come Ikuméni, Rimarishun, 100 Mil Jovens pela Àgua.
Alcuni momenti spiccano nella mia memoria, li traccio qui a pennellate veloci. La commozione e l’entusiasmo di una giovane ecuadoriana, mentre racconta il suo percorso di accettazione delle sue radici quechua e il desiderio di coltivarne la lingua con la sua musica. La danza collettiva guidata da Milly Dallacamina (Argentina), per farci dialogare anche con i nostri corpi. La chiacchierata profonda con un giovane brasiliano sulle motivazioni del nostro credo, guidata dal “Menù della conversazione” fornitoci da Ikoumeni. Lo stupore dell’assaggiare caramelle messicane piccanti. Scegliere la parola compassione e scoprire da persone atee che è molto vicina alla parola amore. Sedersi a un tavolo e disegnare con pennarelli e matite ciò che gli altri raccontano di sé, del proprio Paese, delle sfide che incontrano. Affrontare il tema del rapporto tra religione, gioventù e gender in un piccolo gruppo che non ha lingue in comune e decidere insieme − brasiliani, argentini, messicani e italiani − di parlare ognuno il proprio idioma. Eravamo fiduciosi che ci saremmo capiti, grazie all’attenzione che è la preghiera dell’anima, e così è stato.
In questo modo sono passate le giornate del 22 e 23 luglio. Le ho concluse su un pendio assieme a una gen italiana, che come me è sensibile ai luoghi e al loro significato. Ci siamo concesse momenti di silenzio e preghiera, contemplando il santuario di Nostra Signora Aparecida. Dopo un po’ di quiete, abbiamo condiviso pensieri e impressioni. Tra tutto, ricordo lo stupore di entrambe verso il santuario, segno dell’amore che generazioni di fedeli hanno avuto verso Maria e il suo grembo benedetto.
Il 24 è stato giorno di partenze. Con poche ore di sonno, ci siamo indaffarati al mattino presto, presi dall’impegno di fare le valigie e arrivare in tempo per l’ultimo programma. Siamo arrivati al Centro Eventi con la sensazione dell’”ultimo giorno” addosso: ogni occasione era buona per fare gli ultimi selfies, per dare gli ultimi abbracci, per scambiarsi doni e promettersi di rivedersi presto.
I discorsi finali di Margaret Karram e Jesús Morán sono stati un lancio, un invito a cogliere la sfida di portare le United World Communities, le «cellule di unità» di cui parlava Chiara Lubich, in tutto il mondo. In chiusura, Margaret ha citato uno scrittore cinese, Yutang Lin: «La speranza è come una strada nei campi: non c’è stata mai una strada, ma quando molte persone vi camminano, la strada prende forma».
Al Genfest in Brasile abbiamo iniziato a camminare in 4.000. E tu, ti unisci a noi?
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