Sempre in attesa di Godot
Il capolavoro del “teatro dell’assurdo” di Samuel Beckett, pubblicato nel ’52, testo chiave del ‘900, da quando è stato scritto lo abbiamo visto in tutte le ambientazioni possibili. Comunque venga rappresentato, in Aspettando Godot a prevalere c’è sempre il gran testo con l’attesa di qualcosa che non si sa, di qualcuno che non arriva. E poi c’è quel tempo dilatato, le intense pause, la dialettica fra i personaggi spinta all’estremo, e il finale aperto che suggerisce un’eterna tormentosa ripetitività.
Nei due buffoni-barboni Estragone e Vladimiro in attesa dell’ignoto, viene ritratta tutta l’umanità (lo dicono loro stessi) intenta a interrogarsi sul senso di un’esistenza casuale e inspiegabilmente ripetitiva. Vladimiro ed Estragone possono essere chiunque. E proprio per questo il testo è una straordinaria macchina produttrice di significati al di là della sua apparente e presunta celebrazione del non senso. È una forza di pensiero e di teatro che asseconda ma travalica la specificità delle singole interpretazioni. Bastano quei ritmi ricalcati da una diversa tradizione scenica a spostare impercettibilmente i toni della costruzione beckettiana, ad accentuarne una certa scoppiettante comicità, livida, allibita ma priva almeno della solita convenzionale cupezza metafisica.
Così ci è parsa la bella messinscena ad opera di Alessandro Averone, attore e qui regista di un Aspettando Godot godibilissimo affidato non più a due clown/barboni maturi, bensì di più giovane età, credibili e bravissimi nel dare corpo a personaggi senza tempo costretti in azioni che si ripetono come su di una impietosa scacchiera senza via di uscita dove la paura di quell’abisso dell’anima reclama (in sordina) la voce di Dio. Ma questa voce, in Aspettando Godot ovviamente non arriva. Per due volte arriva un ragazzo (qui interpretato da un esordiente ragazzino di 10 anni, Francesco Tintis, perfettamente calato nel ruolo), forse lo stesso di ieri, o forse no, il quale avvisa che Godot per oggi non verrà, ma sicuramente domani. Arriva invece Pozzo che tiene al guinzaglio come un cane il servo Lucky – carico di valige, di un seggiolino, di un cappotto, della frusta di Pozzo, e con la corda al collo –, e lo maltratta. Poi va via (ritornerà il giorno dopo, ma è diventato cieco, e Lucky, sempre tenuto al guinzaglio, diventato sordo).
Ormai è notte e Gogò e Didì fanno per andarsene, ma poi restano lì. Immobili da sempre e per sempre. La fine del primo atto è speculare al secondo. I burattini di questa favola amara, eppure così vitale, hanno trascorso un’altra giornata ad aspettare, parlare, ricordare. Godot anche stavolta non arriverà, malgrado l’albero abbia messo le foglie. Loro comunque aspettano. Non c’è altro da fare. La scena disegnata da Alberto Favretto è un magma colorato, come dei liquami industriali da cui emergono dei resti di tegole e un lampione piegato a mo’ di panchina, e, naturalmente, quell’albero rinsecchito dove i due si vorrebbe impiccare ma senza esito, qui modellato da scheletrici tubi e antenne televisive tra i cui rami, nel secondo atto, a ricordare le foglie ci sarà invece una busta di plastica verde rimasta impigliata. Una regia sensibile e calibrata, un’ottima interpretazione – Marco Quaglia, Gabriele Sabatini, Antonio Tintis, Mauro Santopietro – che dosa sapientemente stupore, drammaticità, comicità e ironia, sono una buona garanzia per uno spettacolo che ci lascia con un senso di speranza dicendoci che la possibile salvezza in questo mondo, sta nell’aggrapparsi al contatto umano, a ciò che può legare gli individui. Sentimenti anche cercati disperatamente.
E sono eloquenti le parole di Alessandro Averone nelle sue note di regia: «Quello che mi ha sempre affascinato in Beckett è la sottile e fine poesia che scaturisce dai sui testi. L’amore e la compassione per l’essere umano, costretto disperatamente alla ricerca di un senso. Il vagare su questa terra in perenne attesa di un gesto, di una parola che si faccia Verbo e indichi una via, una meta per colmare il mistero dell’essere qui e ora. Nessun Dio. Nessuna metafisica. Si aspetta. Qualcosa di indefinito e sconosciuto. Si fa passare il tempo e si riempie uno spazio. Ci si aggrappa perdutamente a qualsiasi cosa ci ricordi che esistiamo e che siamo vivi. Si gioca, con quello che resta. Del mondo, dell’essere umano, delle parole. Si resiste. Con affetto e violenza. Con quello che si è. Con tutti i nostri limiti. Stretti l’un l’altro».
“Aspettando Godot”, di Samuel Beckett, traduzione Carlo Fruttero, regia Alessandro Averone, scene Alberto Favretto e Elisa Bortolussi, costumi Marzia Paparini. A Milano, Teatro Elfo Puccini, fino al 4/2.