Semplice altruismo o reciprocità?
In un precedente articolo, “Insicurezza e bisogno di relazione” (Città Nuova n. 24/2011), accennavo all’altruismo come una necessità per la piena realizzazione della propria personalità. «Ma di quale altruismo si tratta?», mi ha chiesto una lettrice, preoccupata giustamente di non riuscire a metterlo in pratica perché schiacciata dal peso della famiglia, del lavoro, dell’incertezza.
Non è sufficiente un semplice atteggiamento buonista o filantropico nei confronti degli altri, bisogna mettere in atto un tipo di relazione interpersonale tale da generare la cosiddetta “reciprocità comunionale”. Questa può realizzarsi a condizione che l’individuo decida di essere dono di sé, liberamente e gratuitamente, senza attendersi ricompense e realizzando così quella esperienza di “vuoto attivo” dentro di sé, vuoto, cioè, che accoglie l’altro in tutta la sua specificità e diversità, fino al punto da farlo rispondere (o meno), seguendo i suoi tempi e i suoi modi, a tale proposta di relazione.
È bene a questo punto precisare che per realizzare questa reciprocità è necessario che ognuno dei due sia in grado di esprimere pienamente la propria identità e personalità: per dare, infatti, bisogna prima avere. Nello stesso tempo deve essere capace di “negare (momentaneamente) sé stesso” per l’altro, riconoscendone la specifica individualità senza subirla (personalità non affermativa), né desiderandone l’annullamento (personalità aggressiva).
Si scopre così che l’unità, la comun-unione fra due, può coesistere con il riconoscimento della distinzione di ciascuno, anzi, si realizza solo attraverso tale riconoscimento.
Per poter dare qualcosa all’altro, bisogna avere qualcosa da dare. Per avere bisogna essere sé stessi, con una “personalità assertiva”.
Secondo gli psicologi statunitensi Albert ed Emmon, l’assertività si definisce come un comportamento che permette ad una persona di «difendere il proprio punto di vista senza ansia esagerata, esprimendo con disinvoltura i propri sentimenti e difendendo i propri diritti senza ignorare quelli altrui».
Condizione necessaria è lo sviluppo dell’autostima: chi si vuole bene si relaziona in maniera adeguata con gli altri, mentre pensare di non valer nulla impedisce un buon dialogo con sé stessi, portando a condotte passive o aggressive verso gli altri.
L’autostima, dunque, rappresenta il motore della nostra esistenza; non è qualcosa di innato, ma si configura fin dalle prime esperienze relazionali madre-bambino, se caratterizzate da quel giusto rapporto di accettazione/valorizzazione incondizionata l’uno dell’altro. Essa viene poi confermata o no dai successivi significativi rapporti relazionali nella vita dell’individuo. Una buona autostima, quindi, è premessa per lo sviluppo di una personalità assertiva.
L’individuo assertivo è capace di utilizzare, in ogni contesto relazionale, la modalità di comportamento che ritiene più adeguata, assumendosi la responsabilità dei propri comportamenti e delle relative conseguenze, all’interno delle specifiche situazioni in cui può trovarsi volta per volta. Deve imparare a modificare tanto le proprie componenti aggressive quanto quelle passive, agendo sull’aspetto comportamentale, su pensieri e verbalizzazioni (aspetto corticale-cognitivo), e sulle emozioni (aspetto neurovegetativo).
Per poter divenire assertivi bisogna, in sintesi:
– liberarsi dai condizionamenti ambientali negativi, che tendono a influenzare le nostre scelte;
– conoscere sé stessi e le proprie convinzioni irrazionali, per sostituirle con valutazioni cognitive “sane”, nel rispetto sia dei propri diritti che di quelli altrui;
– perseguire i propri diritti assertivi, incluso quello della reciprocità: uguali diritti/doveri fra soggetti relazionali;
– sviluppare abilità sociali efficaci: «la persona assertiva sa esprimere in modo chiaro ed efficace emozioni personali, riducendo sempre più le sensazioni d’ansia ed aumentando le possibilità di gratificazioni e successi nelle interazioni sociali» (Philips, 1968).