Self-compassion: coltivare la gentilezza verso noi stessi

Chiara non si dà pace. Ancora una volta ha commesso lo stesso errore. Sprofonda nella poltrona davanti a me e non fa che ripetere “Sono sempre la solita, sono un’ingrata, non sono mai contenta”. Giulio non ha superato un esame universitario e dice di sé: “Non riesco mai a portare a termine le cose. Non faccio che fallire. Non sono all’altezza”. Paola non fa che criticare il suo modo di esprimere le emozioni, belle o brutte che siano: “Sono la solita esagerata… se continuo così resterò sola”.
Quante volte ci ritroviamo a ripeterci le stesse cose? Ad apostrofarci con giudizi crudeli che neanche il nostro peggior nemico? Quello che accade è che, in molti di noi, quando viviamo un momento di difficoltà, di sofferenza, si attiva una voce critica, che richiama tutte quelle cose che ci siamo sentiti ripetere (esplicitamente o implicitamente) tante volte durante la nostra crescita o che abbiamo sentito rivolgere ad altri a noi vicini. Giudizi, critiche o standard da raggiungere, derivanti spesso da modelli di pensiero familiari o sociali che dicono come dobbiamo essere, ai quali ci siamo dovuti adattare, e che abbiamo interiorizzato fino a farli diventare nostri. Così ogni volta che non siamo come “dovremmo essere”, o le cose non vanno come dovrebbero andare, dentro di noi si attiva quella voce tutt’altro che misericordiosa e accogliente verso le nostre imperfezioni e difficoltà.
Ciò che accomuna Chiara, Giulio e Paola in questi momenti, oltre alla feroce autocritica è la sensazione che solo loro siano come “non dovrebbero” essere, e che soltanto loro vivono quella particolare sofferenza. Un sentimento che spesso genera un senso di vergogna e di isolamento.
Eppure, quando chiedo a ciascuno di loro “Se nella tua stessa situazione ci fosse una persona a te cara, cosa faresti? Come le parleresti?”, l’espressione del loro viso, il tono della voce, le loro parole improvvisamente cambiano diventando gentili e comprensive. E quando chiedo loro di rivolgere a loro stessi quelle stesse parole, di abbracciarsi come farebbero con un caro amico, di guardarsi come guarderebbero un bambino amato, avviene quasi una rivelazione: “Allora è questo che devo fare, trattarmi come tratterei una persona per me cara!”
Questo semplice, quanto stupefacente, “esercizio” ispirato al lavoro di Kristin Neff, docente di Sviluppo Umano presso l’Università del Texas e promotrice del concetto di self-compassion, ci permette di comprendere che possiamo trattare noi stessi con comprensione e cura proprio come faremmo con il nostro miglior amico, e ci ricorda che le difficoltà e le sofferenze sono profondamente radicate nella condizione umana, attivando in noi un senso di comune umanità che ci aiuta ad uscire dalla sensazione di isolamento e vergogna. Allenare la gentilezza verso noi stessi, è ormai comprovato da diverse ricerche scientifiche, aumenta il nostro benessere emotivo, la confidenza con noi stessi, la nostra creatività e anche il nostro senso di gratitudine riducendo ansia, depressione, stress, rimuginazione, perfezionismo, paura di fallire e sbagliare.
Come fare? Quando quella voce critica si fa sentire, scattando come un meccanismo automatico che ci sembra di non poter controllare e non ci permette di accorgerci neppure che abbiamo un’alternativa, ricordiamoci che possiamo guardare a noi stessi così come guardiamo gli altri e concederci lo stesso sguardo compassionevole, la stessa voce gentile, offrendoci parole di sostegno e accoglienza secondo il nostro bisogno: “Stai facendo del tuo meglio”, “Ti voglio bene, non voglio che tu soffra”, “Vai bene così come sei…”. Questi sono solo degli esempi, ognuno può trovare le proprie parole. Libero spazio alla creatività.
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