Sei voci in una per raccontare la Shoah

"Sono Soltanto Animali", di Luciano Colavero e Federico Olivetti, regia Luciano Colavero, con Antonio Tintis. Ventiquattro frammenti, come in uno zapping impazzito, frenetico, sussultorio.
Siamo soltanto animali - Teatro

E' da segnalare, anzitutto, per l'originalità di scrittura (di Luciano Colavero, anche regista, e Federico Olivetti); per l'approccio tematico fuori dai canoni e dagli stereotipi sull'argomento; per l'acuta messa in scena di tipo installativo (di Alberto Faretto); e per la magistrale polifonia per voce sola dell'unico interprete, Antonio Tintis. Tutti motivi che fanno di "Sono Soltanto Animali" – titolo tratto da una frase del filosofo tedesco Theodor Adorno -, uno spettacolo necessario, perché indaga la responsabilità dell'uomo di fronte alle proprie azioni. Nello specifico sulla Shoah. Per trasformare la memoria storica in uno strumento di orientamento concreto dell'azione nel presente.

Non é facile affrontare il tema dell'Olocausto senza tradire un approccio sentimentale ed un condizionamento emotivo. Difficile piuttosto cercarne dei possibili meccanismi, quelli umani che ne hanno generato l'orrore e, nel rifletterne, mantenere una distanza dall'evento rimanendo il più lontano possibile dalla commemorazione dei morti o dall'odio per i carnefici.

Fra le domande che gli autori si sono posti, prima fra tutte quella riguardante il diritto o meno di poter parlare di cose che non si è vissute; un'altra, anch'essa scomoda, sul rapporto tra obbedienza, responsabilità, violazione dei principi etici e morali di fronte al potere; e, non ultima domanda, come potranno, le generazioni di oggi e quelle future, che non portano i segni di chi ha vissuto quell'inferno, testimoniare la Shoah dopo la morte dell'ultimo testimone?

Lo spettacolo nasce dalla raccolta di schegge di storia: testimonianze di sopravvissuti ad Auschwitz, diari delle vittime, documenti dei processi, dichiarazioni dei comandanti, interviste rilasciate da chi è rimasto solo a guardare. Materiale che, liberamente rielaborato per essere poi messo in comunicazione con il presente, ha fatto emergere quanta verità ci sia nell'affermazione di Bauman: che l'Olocausto non è stato altro che un raro, ma tuttavia significativo e affidabile, test delle possibilità occulte insite nella società moderna. Che genera ancora mostri, terrribilmente più vicini a noi di quanto sembri.

Attraverso ventiquattro frammenti, come in uno zapping impazzito, frenetico, sussultorio, si entra in collisione con sei personaggi e altrettanti registri vocali, interpretati da Tintis. Servendosi di pochi elementi per animare i diversi frammenti, egli si muove dentro una scena di ferro, legno, acqua, gesso, divisa in due luoghi quale spazio concettuale – uno della Storia e uno dell'Uomo -, con un'installazione da una parte e una sedia dall'altra, delimitati da una fila di mattoni per terra che con un effetto domino cadranno diventando confine interiore sul quale camminare.

Con alternanza di spostamenti sulla scena ferita da tagli di luce intermittenti, dà voce e corpo ad un comandante di Auschwitz, mostro che racconta, come una persona comune, gli orrori perpetrati in un agghiacciante resoconto di libera scelta; conferisce movenze da giullare al fuggitivo scardinando lo stereotipo del deportato triste e scheletrico; si sdoppia ulteriormente nel dialogo tra l'ufficiale nel letto e il prigioniero da lui convocato, per un ragionamento di lucida follia intorno alla responsabilità.

Poi, manovrando tre diverse palle di gesso, presta ulteriori toni a tre contadinelle: voci di una qualsiasi comunità che, commentando le vicende come se stessero davanti alla televisione, rivelano una violenza inconsapevole, non inferiore a quella degli aguzzini materiali. Infine è il prigioniero che chiede vendetta, a noi cittadini liberi del mondo, attraverso un lirismo miracoloso per il contesto in cui nasce.

Sembra dirci che noi non possiamo avere il compito di vendicare, semmai di ragionare, proprio perché solo con gli occhi liberi dalle lacrime possiamo realmente usare Auschwitz (riprendendo un'affermazione di Bauman) come una finestra dalla quale osservare il mondo.

"Sono Soltanto Animali", di Luciano Colavero e Federico Olivetti, regia Luciano Colavero, con Antonio Tintis, sculture costumi e spazio scenico Alberto Favretto, disegno luci Mirco Maria Coletti. Associazione Dyomede. A Modena, Teatro delle Passioni, dal 20 novembre all’8 dicembre.

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