Segni tra le pagine

Sfoglia con noi il nuovo numero, da "La dittatura delle emozioni" nel primo piano di Giulio Meazzini alle tante esperienze che parlano di speranza e coraggio
Città Nuova rivista numero 18

«Le sofferenze si dividono e le gioie si condividono per moltiplicarsi, come in una rete in cui tutti i buchi assorbono le difficoltà e i fili collegano tutte le felicità del mondo»: si potrebbe definire anche così il servizio svolto da Città Nuova per i suoi lettori. L’espressione si trova nel riuscito libro di Federica Arfè, "Doroteo, il limone senza neo", recensito da Priscilla Menin nel numero 18 della rivista. La storia della particolarissima famiglia di agrumi, ambientata ad Amalfi, insegna che «per essere amato così come sei, dovrai amare gli altri così come sono».

Ne hanno fatto esperienza in Indonesia i giovani dei Focolari rispondendo a una richiesta di aiuto delle comunità musulmane di Bantul, successiva al grave sisma che nel 2006 provocò oltre duemila vittime: mentre l’interessata solidarietà di altre organizzazioni religiose era stata rifiutata, loro – riferisce Michele Zanzucchi nel Reportage a pag. 46 – furono «accettati e cercarono di capire assieme ai capo villaggio quello di cui c’era bisogno: mancavano totalmente i pendopo, cioè quei locali sollevati da terra e pavimentati con maioliche, senza mura ma con tettoie che nei villaggi hanno molteplici funzioni». La collaborazione non è terminata con la costruzione di 22 pendopo, ma prosegue ancora in altro modo.

Segni di speranza che restano nel tempo. Come quelli che, nonostante le convulse ultime settimane, il direttore ravvisa distinguendo tra "Quel che distrugge e quel che costruisce": a Sarajevo il «dialogo ecumenico e interreligioso, sempre più “politico”, proposto dalla Comunità di Sant’Egidio», in Libano le parole di Benedetto XVI che «ha invitato musulmani e cristiani a unirsi non solo mantenendo il minimo comune denominatore della tolleranza, ma promuovendo il massimo comune multiplo della pace».

Infonde speranza anche l’attività del centro Salvamme, nato grazie all’amore per la vita nascente che ha mosso Maria Grazia Passeri dopo la traumatica esperienza del ritrovamento di un neonato in un cassonetto dei rifiuti. Dopo 15 anni di attività, scrive Aurelio Molè a pag. 24, tante sono le realizzazioni: dal Centro nutrizionale del bambino che «garantisce il giusto ai bambini da zero a tre anni […], fino alla Boutique bebè che distribuisce migliaia di corredini e prodotti per l’infanzia e la gravidanza e al Salvamamme passerotti per i bambini malati o nati pretermine».
Una continuità d’amore che la recente sentenza della Corte Europea per i diritti dell’uomo, condannando l’Italia a risarcire una coppia che non ha potuto ricorrere alla diagnosi genetica preimpianto, sembra non voler far arrivare al bambino nella sua fase embrionale. Si tratta di una sentenza discriminatoria, argomenta Marina Casini a pag. 30 nell’articolo "L’embrione uno di noi", «perché esclude il più piccolo e inerme degli esseri umani dal regno dei bambini e dunque da quello degli esseri umani titolari di diritti». Per questi diritti i volontari del Movimento per la vita si spendono quotidianamente.

Come Massimiliano Kolbe, che non improvvisò il dono della sua vita per un compagno di prigionia: sembrano confermarlo le neuroscienze che studiano le emozioni, le cui recenti scoperte sono illustrate da Giulio Meazzini nel Primo Piano a pag. 4: «Quando nel campo di concentramento di Auschwitz chiese improvvisamente di prendere il posto di un condannato a morte, non lo fece sulla base di una riflessione pacata, ma di un impulso veloce. Un processo automatico, che però aveva addestrato negli anni, donando la vita nei tanti piccoli “sì” quotidiani di amore per il prossimo».

Come non si improvvisò nemmeno Rosario Livatino, “il giudice ragazzino” assassinato dalla mafia nel 1990 per il quale un anno fa è stato avviato il processo di beatificazione. Il giovane magistrato, che aveva siglato la sua agenda con le lettere “STD”, (Sub tutela dei, sotto la tutela di Dio), «riteneva che fosse necessario “dare alla legge un’anima” e che essa dovesse essere applicata usando sia la mente sia il cuore». La sua figura, che cercava "La giustizia vera", è descritta da Michele Genisio nell’articolo a pag. 72: «Il sommo atto di giustizia è necessariamente sommo atto di amore se è giustizia vera, e viceversa se è amore autentico».Diceva: «Quando moriremo, nessuno ci verrà a chiedere quanto siamo stati credenti, ma quanto credibili».

Già, credere. Cosa sia e cosa ne consegua lo spiega Giovanni Casoli a pag. 71: «Una mente onesta non crede di essere creata, lo sa; una volontà onesta non solo crede di essere amata, lo desidera e vuole corrispondere all’amore. Con la libertà di credere ovvero fidarsi». «È una prova dura da combattere giorno per giorno, o meglio ora per ora», scriveva Chiara Lubich nel suo commento alla Parola di Vita di ottobre riproposto a pag. 42. «Ma, se la si affronta e la si accoglie, essa servirà […] a farci sperimentare […] che si può intraprendere nella vita un’avventura divina mille volte più affascinante di quante altre ne possiamo immaginare, dove possiamo essere testimoni, ad esempio, che mentre nel mondo la vita è spesso così stentata, piatta ed infruttuosa, Dio ricolma di ogni bene chi lo segue».

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