Segni tangibili di vite che non terminano

Intervista al Prof. Martin Roch, autore di L’emergere del culto delle reliquie nei secoli IV-VI: una manifestazione storica di una “cultura della risurrezione” (in «Nuova Umanità» XXXII (2010/2) 188, pp. 279-297).
Martin Roch

Professor Roch, lei è uno storico medievista: ci vuole raccontare come è maturato in lei questo interesse per la storia medievale e qual è stato il suo percorso professionale?

 

Ancora quando frequentavo le superiori ho avuto una professoressa di storia che mi ha fatto scoprire che studiare la storia significava investigare, cercare di ricostruire tale o tal’altra parte del passato umano nel modo più veritiero possibile, sfruttando al meglio le tracce, scritte e non, a noi pervenute da quel passato. Nello stesso periodo mi sono imbattuto in un saggio, diventato poi un best-seller, della medievista francese Régine Pernoud, Pour en finir avec le Moyen Âge (Smettiamola col Medioevo), in cui metteva in evidenza e torceva il collo alla “leggenda nera” da cui era afflitto quel periodo storico. Ha forse stuzzicato il mio senso di giustizia… Comunque sia, ho scelto poi il Medioevo come periodo di predilezione durante i miei studi universitari.

Guarda caso, il primo seminario che ho frequentato nella Facoltà di Storia verteva su Gregorio Magno, il “grande” papa (Magno, appunto), morto nel 604. Questo seminario è stato fondamentale per me. Da una parte, ho capito meglio che la “storia religiosa” era anzitutto storia, punto e basta, e che non si dà studio serio della storia se si tralascia la dimensione religiosa dell’uomo (naturalmente, bisogna rispettare i principi epistemologici che fanno sì che la storiografia possa veramente portarci alla conoscenza del passato, che cioè possa essere una scienza vera e propria, e non un discorso ideologico). Dall’altra parte, sono rimasto affascinato da quel primo periodo del Medioevo, ossia l’Alto Medioevo, ancora spesso chiamato “i secoli bui”. Anni dopo, la mia tesi di dottorato si è inserita in queste due dimensioni.

Dopo la laurea ho studiato ed insegnato per circa 12 anni a Taiwan e Hong Kong: questa immersione in una cultura molto diversa, molto ricca, è stata un’esperienza non teorica, ma vitale di cambio di prospettiva: un atteggiamento fondamentale per chi studia storia.

Ed è lì che ho cominciato a progettare una ricerca, poi conclusa col dottorato in storia medievale conseguito presso l’Università di Ginevra. In questo lavoro mi sono interessato alla “cultura sensoriale”, e precisamente olfattiva, dell’Alto Medioevo occidentale. Partendo da documenti narrativi (agiografici, storici, e via dicendo.), teologici, liturgici, archeologici, ecc., ho cercato di ricostruire un aspetto tanto vivo quanto a noi sconosciuto della cultura cristiana. La tesi è stata pubblicata l’anno scorso: L’intelligence d’un sens.Odeurs miraculeuses et odorat dans l’Occident du haut Moyen Âge (Ve-VIIIe siècles) [1].

Dopo aver ricoperto insegnamenti di storia medievale presso l’Università di Ginevra, beneficio ora di una borsa di studio della Gerda Henkel Stiftung (Düsseldorf, Germania) e sono ricercatore invitato presso l’Istituto di studi medievali dell’Università di Friburgo (Svizzera).

 

 

Il suo articolo affronta il tema dell’origine del culto delle reliquie e lo descrive come strettamente legato alla “cultura della resurrezione”: potrebbe spiegarci, in poche battute, questa correlazione tra due elementi apparentemente antitetici?

 

È vero che le reliquie, quali “resti mortali”, appaiono in un certo senso antitetiche alla pienezza di vita indicata dalla parola “resurrezione”. Ora, quando nel cristianesimo si parla di resurrezione, si intende resurrezione anche del corpo. Dal momento in cui si afferma che Gesù è stato risuscitato dai morti, la morte non è più il termine ultimo dell’esistenza (e qui sarebbe necessario citare i vari passi neotestamentari che proclamano questa verità). Va precisato che le reliquie oggetto di culto sono quelle di cristiani “speciali” (come direbbe Peter Brown): quelli che hanno reso testimonianza a Cristo sia versando il sangue nella persecuzione, sia vivendo in modo eccelso le virtù evangeliche. Gli altri fedeli credevano fermamente che in loro fosse presente la vita divina, che in qualche modo impregnava perfino i loro corpi. Quindi, anche se morti, i martiri e gli altri santi (e sante!) erano ritenuti vivi per sempre perché vivi della stessa vita di Dio. I benefici di ogni tipo ricavati dai fedeli presso le loro tombe venivano a conferma di questa convinzione. Queste tombe parlavano più di vitalità che di morte!

 

 

Molto spesso Chiara Lubich ha parlato del Risorto, secondo lei, che rapporto c’è tra la sua spiritualità ed il significato delle reliquie?

 

Io conosco solo un discorso nel quale Chiara Lubich parla apertamente delle reliquie. Si tratta d’un accenno breve, ma interessante perché dice esplicitamente di capire il motivo per il quale la Chiesa abbia permesso la venerazione delle reliquie: perché l’unione con Dio che il santo o la santa sperimenta penetra tutta la persona umana, e impregna perfino l’ambiente in cui vive. Come a dire che nelle reliquie, è Dio che si venera. Ma va sottolineato che il punto centrale del suo discorso non è il culto delle reliquie, ma l’ascetica spirituale richiesta al cristiano per giungere all’unione con Dio.

D’altra parte, mi sembra di scorgere nel pensiero di Chiara Lubich una visuale talmente ampia della realtà della resurrezione che tocca ogni aspetto dell’esistenza umana, personale e sociale, e persino cosmica. E la dimensione corporea non è affatto assente da questa comprensione. Vorrei a questo proposito citare un testo che illustra in modo lampante quanto appena detto. In un suo libretto dedicato all’eucaristia (Città Nuova, 1977), Chiara si chiede se i corpi dei defunti, trasformati già durante questa vita dall’eucaristia, non siano forse chiamati a diventare a loro volta principio di trasformazione del cosmo, “eucaristia della Terra”. Si vede che non ci si trova più di fronte ad un culto delle reliquie (di pochi o molti santi): qui si tratta di tutti i corpi di quanti si sono lasciati trasformare dall’eucaristia, anche se non saranno mai “canonizzati”. Comunque, la visione di Chiara appare fortemente cristocentrica, come lascia intendere la domanda (“parla molto del Risorto”).

 

 

Emerge nella sua ricerca che, già nei primi secoli d.c., si scorgeva un legame stretto tra reliquie ed Eucaristia: ci può spiegare il significato di tale legame? Forse, per capire appieno il significato delle reliquie e della cultura della resurrezione, servirebbe un approfondimento della cultura eucaristica?

 

Nel mio lavoro ho cercato di evidenziare alcuni punti d’incontro (diciamo così) tra reliquie ed eucaristia. Sono anzitutto dei luoghi: ad esempio, tombe sante sulle quali veniva celebrata l’eucaristia, o altari che contenevano reliquie. Inoltre, se le reliquie erano viste come foci della presenza divina in certi defunti, l’eucaristia era sostanzialmente il Pane di vita, pegno di resurrezione. Sembra che i due elementi fossero anche associati nel modo dell’analogia: ne troviamo un esempio nella convinzione che in una sola particola eucaristica è presente tutto il Corpo di Cristo, ma anche che un frammento di corpo santo non è da meno del corpo intero.

Ora, senza tornare su altri punti trattati nell’articolo, mi preme sottolineare che in ambedue i casi, parliamo di “corpo”: Corpo di Cristo, corpi di santi. Anche se il cristianesimo antico e medievale ha prodotto discorsi ed atteggiamenti vari, e a volte contraddittori, sul valore e sulla funzione del corpo umano, sarebbe sbagliato ignorare che questo era comunque un tema centrale. Basti ricordare che l’Apostolo Paolo propone l’immagine del corpo e delle sue membra per spiegare la Chiesa, cioè la dimensione sociale della vita cristiana. Alla dimensione del “corpo” si collega pure la tematica della verginità e del matrimonio: due modi di vivere cristiani che non solo riguardano il corpo nella sua dimensione sessuale personale, ma che hanno anche a che fare col “corpo” della società. Il altre parole, non dovremmo staccare lo studio del culto delle reliquie o dell’eucaristia dall’orizzonte più vasto delineato da un vocabolo ricco di significati quale è il “corpo”.

In questo senso forse potremmo approfondire la cultura eucaristica di quell’epoca (anche se non mancano lavori al riguardo).

 

 

Quale è, a parer suo, il senso delle reliquie oggi, scevro da vecchie superstizioni? E che cosa vuol dire oggi cultura della resurrezione?

 

Questa domanda andrebbe rivolta ad un sociologo o ad un teologo… ma provo lo stesso a rispondere. Come si può osservare, il culto delle reliquie è tuttora vivo, almeno in certi Paesi e certi ambienti cristiani. In questo Anno sacerdotale nella Chiesa cattolica sono state esposte in vari luoghi reliquie del santo Curato d’Ars. In passato, reliquie di santa Teresa di Lisieux hanno fatto il giro del mondo. Ancora quest’anno, si è svolta l’ostensione della Sindone di Torino, da molti considerata come una reliquia. D’altronde oggi, per moltissime persone, anche cattoliche, specie in Europa, le reliquie dei santi non sembrano dire più nulla. Senza dubbio, certi abusi del passato hanno segnato le menti…

Eppure, chi di noi non conserva qualche “reliquia”: oggetti o foto di persone care, di star, o altro? E, al proposito, non tutte le superstizioni sono “vecchie”, ne vediamo ancora parecchie anche nella sfera non religiosa! Vi è quindi nell’uomo la necessità di segni concreti del rapporto con un altro-invisibile (defunto o lontano).

Alla luce di quanto ho potuto studiare, a me sembra che il tema delle reliquie dei santi possa oggi essere motivo per i cristiani di approfondimento della grande realtà dell’incarnazione, realtà che non riguarda solo Gesù! L’antica convinzione che esse siano luoghi di una certa presenza divina ci stimola a riflettere su come consideriamo il corpo, nostro ed altrui, e direi in particolare il corpo sofferente, diminuito, non più bello (anche le reliquie corporee non ci sembrano molto attraenti!). Le reliquie dei santi, ossia di persone concrete, ma già morte, sono anche testimonianze storiche, aprono il nostro orizzonte al lungo cammino della Chiesa nella storia: tanti ci hanno preceduti, per i quali possiamo nutrire gratitudine (e memoria veniva a volte chiamata la tomba dei santi); molti verranno dopo di noi, per i quali possiamo provare a costruire dei pezzi di una società più giusta.

L’espressione “cultura della resurrezione” assume oggi un significato senz’altro diverso rispetto a quello che ha potuto avere in tempi passati; io l’ho letta soltanto in Chiara Lubich, e quindi sarebbe da approfondire cosa lei intendesse con queste parole. Da quanto mi consta, lo studio non è ancora stato fatto. Però, si sa che una dimensione fondamentale del carisma di Chiara sia la scoperta delle condizioni e della possibilità del “vivere col Risorto”, di sperimentare cioè la sua presenza fra gli uomini. Questa Presenza illumina e trasforma rapporti e situazioni, e suscita quindi una nuova cultura, che si manifesta ad ogni livello, non solo quello intellettuale. Si tratta di uno stile di vita e di una comprensione del mondo accessibili al bambino come all’adulto, alla persona colta come a quella meno istruita, in qualunque punto del mondo. In questo senso, questa “cultura della resurrezione” mi pare nuovissima in confronto con quella che ho provato a delineare nel mio lavoro.

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