Segni fra le pagine
«Talvolta ci scopriamo a porci la domanda più semplice che ci sia in questi tempi di crisi: ma chi me lo fa fare? Una domanda declinata in diverse forme: ma chi me lo fa fare di pagare tutte le tasse dovute, proprio tutte? […] di perdere tempo nel fare la raccolta differenziata dell’immondizia?» E’ dando voce a questo sentire diffuso che Michele Zanzucchi apre il n°22 di Città Nuova. […].Nell’editoriale Il Punto il direttore riconosce che nella convivenza civile la reciprocità è in effetti importante, ma il bene comune non ha bisogno della “reciprocità”, «mi spinge all’azione positiva anche se sono solo […]. Tuttavia la piena soddisfazione, la “felicità sociale” arriva solo se c’è reciprocità di comportamenti: la piena realizzazione della nostra identità comune avviene solo in questo caso».
Solidarietà, altruismo e reciprocità hanno dunque un forte impatto non solo sugli altri, ma sul soggetto stesso che, agendo in questo modo, scopre la propria vera identità. Lo spiega il filosofo Massimo Donà, nell’ambito di una riflessione intitolata Col Dio sceso nella storia pubblicata a pag.68: «Lo stesso darsi agli altri non potrebbe né dovrebbe essere vissuto come semplice annichilimento della propria soggettività individuale. Anche perché è solo donandoci agli altri che potremo sperare di capire chi siamo; ossia capire che “altro” sono innanzitutto io per me stesso».
Ogni strumento è buono per tessere relazioni costruttive. Ci si può servire anche dei social network, ora che qualcosa sta cambiando anche in questo mondo. Lo riferisce Claudia De Lorenzi nella rubrica dedicata ai Media a pagina 62:«Nascono così i social network di quartiere, piattaforme di comunicazione fra coloro che abitano vicino, nello stesso palazzo o due traverse più in là, e che spesso si confrontano con le stesse piccole e grandi sfide quotidiane: si va dalle buche per la strada all’illuminazione che non funziona, dal guasto alle tubature ai nuovi sensi di marcia […]. In Italia qualcosa di simile lo hanno inventato due ragazze di Milano, che hanno vinto un bando con un blog per raccontare la città a quelli che vengono ad abitarci. Insomma, i moderni social ci riportano al passato, quando i legami interni alle comunità locali erano molto forti e la condivisione, per necessità e come stile di vita, era la norma».
Alle comunità locali si contrappone una globalizzazione senza regole. A questi Volti di neocolonialismo sono dedicati i contributi di due corrispondenti a pag. 62: Gulian Geronimo, dalle Filippine, scrive che «la frutta e la verdura importate costano di meno di quelle locali. Intere famiglie di contadini sono così sul lastrico. In generale le aziende delle nazioni più industrializzate hanno potuto aprire stabilimenti dove l’energia costa meno e i requisiti ambientali sono meno stringenti, salvo chiuderli, lasciando migliaia di disoccupati, per muoversi verso nuovi siti che offrono condizioni più vantaggiose». Gli fa eco dal Kenya Liliane Mugombozi ricordando il «recente accordo tra la Corea del Sud e il Madagascar, grazie al quale la coreana Daewoo ha ottenuto per 99 anni la concessione sul 50 per cento del terreno coltivabile dell’isola […]. Come afferma lo studioso Ankie Hoogvelt, «è la nostra stessa umanità ad essere messa in discussione da questo commercio. Dobbiamo perciò agire come hanno fatto gli abolizionisti, al loro tempo, che boicottarono il rum e lo zucchero prodotti con la manodopera degli schiavi».
Qualcosa si può fare. Ci ha provato Adriano Sella, fondatore dell’Equobar di Vicenza, il primo in Italia. Lo ha intervistato Aurelio Molè a pag.23: «Si vendono solo prodotti dell’equo solidale, a chilometro zero e di agricoltura biologica. Sono i prodotti di un’economia che chiamiamo di giustizia. Ma il consumare, anche se equo e solidale, non è la cosa più importante. «Non c’è alcuna pressione al consumo – dice Marzia Lovato, presidente della cooperativa AlterAttiva, che gestisce il bar –; i clienti possono sfogliare il giornale, giocare a carte, leggere i libri sui nuovi stili di vita sobri per tutto il tempo che vogliono». È un bar non per tesserati, ma aperto a tutti per creare aggregazione».
Insomma sono le relazioni che segnano la differenza, in un bar come in una parrocchia. Avveniva negli anni Ottanta nella parrocchia San Paolo di Gaeta. Così a pagina 44 Brendan Leahy ricorda Quel di più che spiegava il Natale nelle parole dell’allora parroco don Cosimino Fronzuto:« Cominciai cercando di far diventare ogni mio contatto con le persone un momento di Dio, un’occasione per amare, per stabilire rapporti veri, vedendo Gesù in ognuno di loro senza distinzione. Notai subito che, quando mi mettevo nell’amore, qualcosa passava da me agli altri […]. Non si trattava di una parrocchia con singoli cristiani bravi ma piuttosto di persone che si trasmettevano l’un l’altra il dono dell’accoglienza, della fiducia, dell’ascolto: in breve, della vita evangelica. E ciò faceva nascere la Vita, cioè Gesù-Vita nei rapporti reciproci. Il clima di famiglia regnava fra loro perché erano sempre tesi a vivere da figli dell’unico Padre».