Segnali verso l’approdo
Perché la luce pulsante di un faro o lo scorgerne dal mare l’architettura mi provoca una certa emozione colorata di nostalgia? Quando si fa notte – che in mare arriva piena, densa ed orizzontale – e si è costretti ad un approdo, è la luce di un faro ad accoglierci all’entrata di un porto. È la notte il regno dei fari, cominciando le loro luci a palpitare al crepuscolo, in quell’ora magica in cui il cielo si tinge di rosa e cobalto e l’ombra si addensa. Se il luogo dell’arrivo è sconosciuto, si deve consultare il Portolano e dare un’occhiata all’Elenco dei fari e dei segnali da nebbia. Poi – tra i bagliori della costa, le lampare o lo scintillio della barche in rada – si va a cercarcela quella luce che corrisponda alla descrizione, che abbia quella periodicità e quel colore. Individuare un faro è un po’ come scorgere la Stella Polare: tutto si orienta. Ecco dov’era l’ingresso del porto, ecco il canale – luce rossa a sinistra, luce verde a destra -; erano lì il fondale basso, le secche da evitare. Si deve aver provato un atterraggio in notturna, magari col tempo avverso, per capire cosa è un faro. È luce discreta, la sua, alfabeto luminoso che si esprime nel silenzio o più spesso nel fragore assordante del mare che si frange sulle scogliere (pensate ai fari possenti di Bretagna o del Mare del Nord). Usa un linguaggio in codice antico ed elementare – lampi pause lampi – eppure che precisione nel segnalare gli approdi e i pericoli! E se il faro dei nostri sogni, quello delle leggende e della letteratura, ce lo immaginiamo allegro e luminoso, custodito da un vecchio guardiano in compagnia del vento e dei gabbiani, il faro è per gli architetti un preciso segno semantico che ha dato fortissimo significato allo spazio intorno, da sempre. La percezione di questo spazio nell’antichità va immaginata indistinta e terrifica. I fari – strutture alte ed erette e ben visibili – lo resero amico, segno architettonico della presenza umana, segnale di frontiera che dette forma all’informe e qualificò lo spazio tra terre e mari, spazio che la notte rendeva ancora più saturo di incertezza e pericolo. Ma a me piace immaginare che i fari siano nati dall’amore disperato di una madre, di una sposa, di un vecchio in ansia per chi dal mare non tornava, ed era notte ormai. Accendiamo un fuoco, forse ci vedranno! E poniamolo in alto, e facciamolo grande e luminoso, per dire la via, per tracciare il ritorno… Ecco perché ogni faro ancora oggi sembra possedere un’anima. Solido nella sua postazione di guardiano nei punti più alti della costa, pare un amico che si sporge da una finestra per dare il benvenuto a tutti noi, affaticati viandanti di mare e di terra. Se penso a tutto questo non mi meraviglia più la nostalgia che provo davanti a un faro. È il desiderio struggente del nòstos, del ritorno a casa, di cui ognuno di essi sembra tracciare la via. Ma quale casa? Se paragoniamo la Terra ad una navicella che ruota nello spazio come un veliero su cui naviga l’umanità – intuizione nuova ed antica ripresa dal grande sociologo francese Edgar Morin nel suo Cultura e barbarie – viene da pensare ai fari come alle luci di via di questa nostra nave in rotta verso una casa comune: non sogno, non utopia, ma unico possibile e ragionevole approdo. Gli occhi del mare In principio – e l’accenno più antico lo troviamo in Omero – erano semplici fuochi alimentati sulle coste pericolose per indicare la rotta ai naviganti quando l’intensificarsi dei commerci costrinse ad avventurarsi anche di notte sulle onde marine. Poi divennero costruzioni sempre più elaborate, fino a quelle meraviglie del mondo antico che furono il Faro di Alessandria, eretto tre secoli prima di Cristo e prototipo di tutti quelli successivi, e il Colosso di Rodi, quasi un antenato della Statua della Libertà a New York: posto all’in gresso del porto dell’isola, reggeva in una mano un braciere ardente. Dopo i progressi ottenuti in questo campo dai romani, nel Medio Evo i fari tornarono ad essere semplici torri in cima alle quali veniva mantenuto acceso un fuoco: compito di cui si facevano spesso carico monaci ed eremiti. Continuavano però ad essere utilizzati anche i falò costieri per segnalare l’accesso ad un porto. Tutt’altro che infrequenti, però, erano quelli allestiti da individui senza scrupoli in prossimità di scogliere, dove in certe notti di tempesta le navi facilmente facevano naufragio per poi venire saccheggiate. Probabilmente anche questa piaga, trascinatasi fino all’Ottocento, contribuì a far moltiplicare le torri in muratura specialmente nei luoghi più remoti e desolati. In effetti il XIX secolo registrò un vero boom dei fari, tanto che la maggior parte di quelli oggi esistenti risale a quell’epoca. Fari sempre più luminosi, grazie anche ai perfezionamenti tecnici apportati dal fisico francese Augustin Fresnel (1788-1827), geniale inventore di un sistema di lenti che concentrando la luce al centro potenziava al massimo la fonte di essa. Eretti in posizioni strategiche nei luoghi più selvaggi e inospitali del globo, talvolta demoliti dalla furia del mare e ogni volta ricostruiti, le loro sagome affusolate puntate contro il cielo sono apparse sempre cariche di forte valenza simbolica, quasi occhi luminosi che scrutano le tenebre a rassicurare i naviganti; ed anche emblema della capacità dell’uomo di dominare le forze avverse della natura. Ciascuno inconfondibile per caratteristiche esteriori, ciascuno con un suo segnale luminoso ben preciso. Indissolubilmente legata al faro, almeno fino a un recente passato, era la figura del guardiano. Un po’ eremita (non sempre poteva portare con sé la famiglia), doveva essere un tuttofare capace di affrontare la monotonia delle giornate in solitudine e altri considerevoli disagi: specie quando i fari erano ancora alimentati manualmente (ad olio e a gas acetilene, prima di arrivare alle moderne lampade alogene) e, sempre manualmente, doveva essere ricaricato il meccanismo ad orologeria che faceva girare la lanterna. E poi c’erano gli imprevisti dovuti ai guasti, alle tempeste che a volte impedivano per giorni e giorni di ricevere i rifornimenti di generi di prima necessità. Da quando però anche i fari sono automatizzati, non è più necessaria la presenza umana, e là dove ancora è rimasta la vita del guardiano è diventata certo meno problematica. Ed oggi? Fatta eccezione per i fari storici, tutelati in quanto monumenti, o per quelli non di proprietà della Marina militare ritornati in auge grazie ad un flusso turistico che li ha eletti a luoghi di vacanze particolari (come avviene in Croazia), gli altri conoscono una esistenza precaria e si avviano verso un futuro incerto. Di fari, infatti, bisogna ammetterlo non senza rimpianto, non se ne costruiranno più: oggi i computer a bordo delle navi che, tramite una rete satellitare, consentono di stabilire con grande precisione la propria posizione, rendono del tutto inutili i vecchi ausili visivi e luminosi. Ad eccezione delle piccole luci che costeggiano i canali di accesso ai porti e delle boe luminose che segnalano i pericoli e i punti di transito, i grandi fari appartengono ad un’epoca ormai passata, ed è anche per questo che li vediamo rivestiti di un fascino che può solo aumentare col tempo. MILLE STORIE DI LUCE Se i fari potessero, avrebbero di che raccontare: storie drammatiche, riguardanti salvataggi, naufragi, o esistenze trascorse nel sacrificio e nella solitudine. Nessuna meraviglia dunque se hanno ispirato numerosi autori: da Sienkiewicz a Ibsen a Verne o, per arrivare ai nostri tempi, da Denis Guedj a Francisco Coloane a Colm Toibin… E come non ricordare il bellissimo romanzo di Virginia Woolf Al faro (o Gita al faro, come anche viene tradotto)? La scrittrice ha fatto un capolavoro di un racconto apparentemente semplice, che si svolge fra interni familiari: una gita alle isole Ebridi sempre rimandata nell’adolescenza – periodo della vita nel quale spicca la stupenda e insostituibile figura della madre -, e finalmente realizzata solo dieci anni dopo, quando i suoi figli ormai adulti si rendono conto che l’unico vero faro di luce della loro vita è stata quella madre ormai scomparsa. Immensa poi la produzione di libri sulla storia, l’uso e il tipo di vita che si conduceva nei Lighthouse, come li si chiama in inglese. Tra i più recenti segnaliamo I fari raccontati ai bambini (L’Ippocampo), testi di Francis Dreyer, disegni di Daniel Dufour e immagini suggestive del famoso fotografo del mare Philip Plisson. E poi, anch’esso splendidamente illustrato, Fari, per i tipi della White Star: l’autrice Annamaria Lilla Mariotti illustra 37 fari antichi e moderni sparsi per il mondo, di ognuno raccontando la storia, la collocazione storica e geografica, le caratteristiche tecniche. Senza dimenticare l’elemento umano rappresentato dalla figura del farista.