Seduto ai piedi del mio cielo
Biondo, occhi azzurri. Le ragazzine impazzivano – ancor oggi – per Jacopo, 29 anni, lanciato a Italia 1 da Miguel Bosè in Operazione trionfo due anni e mezzo fa. Ma lui non s’è accontentato di diventare un oggetto mediatico. Perché, taciturno e riflessivo, è un giovane uomo dai forti pensieri. Jacopo, da Beverino, 900 anime presso La Spezia, al successo televisivo. Come ci sei arrivato? Direi per caso. Avevo iniziato a strimpellare la chitarra da ragazzo durante l’immobilità a causa di un incidente. Io non ero un tipo da discoteca, preferivo star solo, affidare i pensieri alla mia voce o alla chitarra. Poi con alcuni amici mettemmo su un gruppo che suonava e cantava nelle cantine. Mi parlarono di Operazione trionfo come una gara fra cantanti, dove contava i l talento più della voce: feci dei provini, mi presero. Accettai. Su 20 mila concorrenti restammo in sedici in finale. Certo, è stata un’esperienza interessante. Da una parte mi sono accorto che la tivù non ha nulla a che fare con la musica: conta l’audience e non le emozioni che uno vive, anzi si gioca sulle emozioni tue e degli altri. Mi hanno pure messo in difficoltà, perché ero il più rockettaro degli altri, e questo ovviamente faceva il gioco dell’audience. Nel gruppo, poi, io apparivo una persona di ghiaccio, uno che metteva pace, ascoltava i problemi dei partecipanti. In realtà, mi mettevo una maschera, per scappare dalle mie paure. Credevo di essere un forte, uno che non piange mai, nemmeno quando perde il padre cui è legatissimo, a quindici anni… Ma lì, vivendo in soli 1000 mq con poche persone, ho dovuto rivisitarmi, cogliere tutto ciò che mi faceva soffrire: sono scoppiato a piangere sotto il peso delle emozioni, e finalmente ho capito che mi potevo ricostruire, potevo essere una persona diversa. Questo è ciò che mi ha lasciato Operazione trionfo, oltre ad un grande amore per la musica. Ti arriva il successo, giri l’Italia con una band Quarta zona, ti si vede in televisione, sei famoso. Ma insoddisfatto. Ad un certo punto ho mollato il gruppo: non mi ritrovavo a cantare versi come io ti odio e così via… Avrei potuto fare soldi, già si arrivava in radio, ma non mi andava. È stato in quel periodo che un amico del Gen Rosso – mi aveva visto in tivù e gli sembravo il tipo adatto a interpretare una canzone nel loro spettacolo Voglio svegliare l’aurora – mi ha cercato, trovato, a forza di sms cui mai rispondevo, e invitato a Loppiano. Andai, non me la sentii di cantare quel brano, ma fra noi è nata un’amicizia, tanto che tuttora Loppiano è il mio riposo, la mia seconda casa. Riuscii a parlare di me, ad aprirmi dopo tanto tempo e dissi che mi sarebbe piaciuto fare un disco tutto mio. Lui prese la cosa a cuore e ora siamo arrivati a questo primo album. Cioè a Seduto ai piedi del mio cielo. Come mai questo titolo? Beh, direi che l’album nasce dalla consapevolezza del valore della musica. Ho ricevuto infatti parecchie testimonianze di persone alle quali il mio modo di essere uomo prima che artista, ve- dendomi in tivù, aveva aiutato a superare delle difficoltà. Ricordo ad esempio le lettere di una signora che mi parlava della nipotina leucemica. Sorrideva solo quando mi vedeva in televisione. Perciò lei si augurava di poter portare la bambina ad un concerto live tutto mio per darle gioia… Questo e la voglia di aprirmi finalmente, mi hanno portato all’album. Il titolo nasce dall’ultimo brano che ho scritto ma che forse, inconsciamente, è stato il primo: era come un aver eretto con la fantasia, delle pareti nel mio giardino di casa e poter contemplare un pezzo di cielo. È la canzone della mia svolta di uomo che ha lottato con le sue paure per costruirsi un futuro migliore, facendo tesoro di ciò che ha vissuto. Perciò questa è la canzone solare dell’album, piena di lacrime di felicità. Ogni canzone corrisponde a un tuo pezzo di vita, come tante vie verso un unico punto? Sì. Ad esempio Sei libera è una specie di canto d’amore a una ragazza: la sintesi di tante storie vissute da me o dagli amici – i pochi intimi che ho – che me le raccontano. Io dico cosa è per me l’amore, per una ragazza nel caso, ma anche si può estendere agli amici, a chiunque, universalizzare. Amare una persona vuol dire lasciarla libera di respirare, non soffocarla. Certo desidero incontrare una persona con cui condividere le cose belle e brutte, come ho scritto nel brano Cercandoti. Ma aspetto un raggio di sole che mi faccia capire che quella è la persona giusta, che porto già dentro me. Non c’è solo amore, ma anche accenni alla tua famiglia, a Dio. Oggi è un giorno nuovo… e i miei sguardi riempiranno i tuoi spazi. Nei versi di questo brano, il primo che ho scritto, gli spazi sono quelli che ciascuno ha dentro di sé, mancanze o assenze nella vita. L’ho dedicata a mia madre. Quanto a Dio, ne parlo in Frangenti di realtà. Io ho un mio modo di vivere la fede, Dio lo trovo in tutto, anche in un fiore, lo posso pregare ovunque. Jacopo, cosa vorresti passasse alla gente? Vorrei che chi ascolta questa musica vada al di là delle emozioni che mi hanno portato a scriverla, incontri l’artista che vive in me, in modo da mettere anche la sua vita dentro ogni pezzo. Perché la musica è come un depuratore dell’anima, qualcosa che ti fa fare uno scatto e dire a tutti: quando stai male, sei triste, è meglio parlare che rimanere in silenzio, è meglio avere qualcuno al tuo fianco, perché così puoi diventare libero. Tu non hai avuto momenti facili, però ora hai deciso di raccontarti. Cosa ti auguri per il futuro? Per la mia famiglia, che amo molto, per me, la serenità. Non importa se ce l’avrò facendo l’idraulico o il cantante. Credo però che la felicità stia nel seguire la mia strada, voglio farlo per me e per chi crede in me. Città nuova – N.