Se non unisce, non si fa
All’indomani del devastante passaggio dell’uragano Sandy, la sera di lunedì 30 ottobre, probabilmente senza avere il polso completo della situazione, il sindaco Michael Bloomberg aveva assicurato la partenza della 43esima edizione della Maratona di New York, che prendendo il via da Staten Island tocca tutti i boroughs della metropoli (nell’ordine Brooklyn, Queens, Bronx e Manhattan).
Iinvocando come precedente la decisione del suo predecessore Rudy Giuliani, che non volle annullare l’edizione 2001 a soli due mesi dall’attacco terroristico alle Torri Gemelle, Bloomberg intendeva dunque dare luogo alla gara, una delle corse più famose del mondo, che quest’anno aveva come slogan Everything else is a warm-up, tutto il resto è un semplice riscaldamento.
Da quel 2001, infatti, la gara, che già era un evento sportivo che coinvolgeva la città in una grande festa, era infatti diventata un simbolo di speranza e rinnovamento. Ma questa volta è diverso: l’emergenza è ancora troppo vicina, varie parti di New York sono isolate per la mancanza di trasporti e soprattutto di corrente elettrica (che significa non solo niente luce, ma anche niente riscaldamento, niente ascensori in palazzi da decine di piani, niente linea telefonica, a volte niente acqua); senza contare chi ha perso la casa e chi ha avuto danni di varia entità. Perfino la polizia è in difficoltà a mantenere l’ordine, perché l’uragano ha colpito tutti, e anche molti poliziotti semplicemente sono impossibilitati a raggiungere il posto di lavoro.
La maratona è un grande evento sportivo che celebra la città di New York e la fiera coesione dei suoi abitanti, i quali spesso si piazzano agli ultimi chilometri della gara per mettersi a correre accanto a chi sembrerebbe voler mollare, offrendo acqua e incoraggiamento fino alla fine. Critiche erano fioccate da subito sulla decisione di Bloomberg, che alla fine venerdì pomeriggio ha deciso di annullare l’edizione, per la prima volta nella storia della manifestazione: quando migliaia di turisti-corridori erano arrivati a New York ed avevano già preso o erano in procinto di ritirare il costoso pettorale.
Il disaccordo [riguardo la manifestazione,ndr] è cresciuto nel corso della settimana, e tra noi chi ama la città e chi ama questa corsa concorda sul fatto che se non è un evento che unisce, non è la maratona: parola di Howard Wolfson, braccio destro del sindaco.
In ogni caso, il cielo limpido e l’aria fredda del mattino didomenica 4 novembre hanno visto correre per la città qualche migliaio di persone, in gruppi più o meno autonomamente organizzati, che hanno corso tra i 28 e i 32 km.
Chi corre e chi usa i muscoli in altro modo: in seguito ad un tam-tam sui social network centinaia di maratoneti si sono infatti dati appuntamento al traghetto che porta verso Staten Island, uno dei luoghi più colpiti, riversandosi poi per le strade dell’isola e offrendo aiuto a chi stava liberando la propria casa dai detriti. E c’è già chi propone di iniziare la tradizione di un lunedì di servizio ogni anno a seguito della maratona.
Anche i newyorkesi non corridori si sono organizzati, mostrando una prontezza di spirito e una lucidità che forse è inizialmente mancata all’amministrazione: a partire da subito tutti – dai professori dell’università che frequento alle organizzazioni di beneficenza della più varia origine, a singoli gruppi di amici – si sono dati da fare con il passaparola per la raccolta di capi di vestiario, torce elettriche e cibo, per la donazione di sangue o per dare aiuto concreto a chi ha perso molto o tutto, mossi questa volta dallo slogan Let’sGive!.
New York, una città che conta tanti abitanti quanti tutto il Belgio, la città in cui qualsiasi cosa tu ci venga a fare ti ritroverai ad essere sempre di corsa e dove l’individualismo sembrerebbe trovare l’humus più adatto a proliferare, si ritrova raccolta e come sempre laboriosa intorno ai suoi feriti, come una famiglia intorno al tavolo.
Forse è proprio la maratona ad essere un semplice riscaldamento, quello per affrontare la vita vera.