Se non ora, quando?
Con il governo Monti è possibile il varo di riforme costituzionali e della legge elettorale. Ne approfitti il Parlamento.
Ma in Parlamento c’è davvero aria nuova? Abbiamo notato che il presidente del Consiglio non perde occasione per sottolineare come dal governo dei tecnici sia venuto un contributo al disarmo della politica, per cui i partiti maggiori e contrapposti, costretti a votare gli stessi provvedimenti, si sono ritrovati meno abilitati a guerreggiarsi e anche più propensi a cercare i punti di coesione.
La nuova maggioranza formatasi attorno al governo Monti, non può però definirsi “di larghe intese”; essa infatti è nata come somma aritmetica aggregata intorno alla terribile crisi da fronteggiare, ma senza una base programmatica comune. Ora però, raggiunta una certa stabilità del governo, si può passare alla progettualità. Il Parlamento ha l’occasione di fare fino in fondo il suo lavoro di legislatore, producendo le larghe intese su quelle leggi necessarie per riavviare il sistema istituzionale: le riforme costituzionali e la legge elettorale.
Possibile che sia possibile? Sì, se c’è la volontà. Il capitolo delle modifiche alla Costituzione, si sa, è ardito per via del procedimento complesso che esse richiedono. Una volta definito il testo in Commissione, bisogna approvarlo sia alla Camera che al Senato; il testo deve poi star fermo per almeno tre mesi, trascorsi i quali può essere sottoposto alla definitiva approvazione in entrambe le Camere con una maggioranza non inferiore ai due terzi. È quindi necessario molto tempo e si potrebbe dire che il Parlamento non ce l’abbia, visto che sta per entrare nell’ultimo anno di legislatura. È vero, il tempo potrebbe mancare, se si trattasse di argomenti nuovi. Ma le questioni più urgenti da affrontare sono arcinote, arcistudiate e anche arcipensate e arciconfrontate tra le parti, per cui c’è già la base per un consenso molto ampio.
Una riforma del Parlamento che punti a superare – perché troppo macchinoso – l’attuale sistema imperniato su due Camere che svolgono gli stessi compiti (il cosiddetto bicameralismo perfetto), già fa parte da tempo della vita legislativa del Parlamento italiano.
Essa prevede una sola Camera politica (cioè deputata a dare la fiducia al governo e ad approvare la gran parte delle leggi), formata da un numero ridotto di deputati, e un Senato, anch’esso deputato a svolgere compiti legislativi, ma non in sovrapposizione con l’altra Camera. La caratteristica del Senato starebbe nell’essere rappresentativo delle autonomie locali, con i senatori che verrebbero espressi dai governi locali.
Queste modifiche erano contenute nella più ampia riforma costituzionale approvata negli anni 2001-2006 sotto il governo Berlusconi. Essa non andò in porto perché, approvata senza maggioranza di due terzi in Parlamento, fu sottoposta a referendum confermativo e bocciata, a causa di altre disposizioni più discutibili. La parte relativa al Parlamento fu però ripresa, sotto il governo Prodi, dal disegno di legge portato avanti dall’on. Violante; questa bozza fu approvata in Commissione con l’astensione del centro-destra, ma poi sopravvenne lo scioglimento anticipato delle Camere.
Anche in questi giorni, la I Commissione del Senato lavora sulla riforma del bicameralismo e del procedimento legislativo, con norme per rafforzare il governo, senza discostarsi da quei precedenti. La Commissione ha però stabilito una priorità: mandare avanti un piccolo disegno di legge per ridurre il numero dei parlamentari e proseguire a parte le altre riforme.
In questa scelta si capisce l’intenzione di dare un segnale agli elettori sul piano della riduzione dei costi della politica; ma appare una scelta al ribasso. Il vero segnale sarebbe quello di rimboccarsi le maniche, lavorare sull’intera riforma ogni seduta, ogni settimana, magari facendo gli straordinari, pur di cogliere l’obiettivo.
I tempi urgono, infatti, anche per l’altra fondamentale modifica: quella della legge elettorale. Paradossalmente, l’approvazione di questa legge appare ancor più difficile, non per aggravamenti procedurali (che non ci sono), ma per la distanza siderale che divide i partiti e in qualche caso anche le componenti interne dei partiti stessi. Pertanto, anche ai fini del varo di una nuova legge elettorale, le modifiche costituzionali verrebbero in aiuto: riformate le Camere, sarebbe indispensabile introdurre un sistema elettorale armonico e coerente con il nuovo assetto. L’Italia potrebbe ripartire davvero e il Parlamento della XVI legislatura sarebbe ricordato per questo grande servizio.