Se non bastano 60

Nella contabilità dell’ordine mondiale, il numero 60 ha assunto, dall’aprile scorso, un’importanza particolare. È stata infatti superata la soglia di 60 ratifiche prevista dallo “Statuto di Roma” per l’entrata in vigore del tribunale penale internazionale. Un evento che cambia sostanzialmente il modo in cui la comunità internazionale perseguirà, d’ora in avanti, i crimini contro l’umanità, come il genocidio, le deportazioni di massa, l’apartheid. Qual è la differenza di fondo rispetto ai vari processi internazionali, come quello in corso a l’Aja contro Milosevic, avviati proprio per le stesse ragioni? La più rilevante è che mentre questi ultimi sono “tribunali ad hoc”, cioè istituiti esclusivamente per eventi determinati (come i crimini commessi durante il conflitto nella ex-Jugoslavia), sul modello, per capirci, del processo di Norimberga, il nuovo tribunale penale internazionale è un’istituzione permanente. Esso potrà intervenire, in via complementare, per perseguire i responsabili di crimini contro l’umanità, qualora i giudici nazionali omettano di farlo. Anche se non sembra, il cambiamento è qualitativo. Un tribunale permanente implica, in primo luogo, che non saranno più sostenibili le critiche rivolte ai processi ad hoc, tacciati (spesso ingiustamente) di amministrare la “giustizia dei vincitori”. Un processo dell’oggettività e dell’imparzialità nella giustizia internazionale, si potrebbe dire. Ma è proprio questo il punto critico. Per ragioni solo in teoria comprensibili, gli stati che si ritengono più “esposti” a causa della loro proiezione internazionale (Stati Uniti in testa) o di situazioni conflittuali interne (come la Cina e, per i noti motivi, Israele) rifiutano categoricamente di sottomettersi a questa giurisdizione universale. Gli Stati Uniti, avvalorando i timori della comunità internazionale per i rischi del nuovo unilateralismo dell’amministrazione Bush, hanno detto a chiare lettere che in nessun caso permetteranno che il nuovo tribunale giudichi l’operato dei militari e dei diplomatici statunitensi impegnati all’estero. E con un gesto clamoroso, hanno addirittura minacciato il ritiro del loro contingente dalla missione Onu in Bosnia. Decisione ora sospesa per un anno in cambio dell’immunità concessa dall’Onu ai militari americani. Inoltre, con una legge recentemente approvata dal Congresso, hanno deciso il boicotaggio delle forniture militari a tutti gli stati che collaboreranno con il tribunale (ad eccezione dei paesi Nato). Quali conclusioni trarre da questa vicenda. La questione del tribunale penale internazionale evoca una problematica ben più ampia, che è quella della “democrazia internazionale”. Fino a quando pochi e potenti stati pretenderanno di dettare le regole per tutti gli altri (prescindendo totalmente dalle Nazioni Unite, sotto i cui auspici è sorto il nuovo tribunale). Allora non è certo il caso di parlare di “ordine internazionale”, né vecchio né nuovo. D’altra parte, come si è visto in tutta la questione della “giurisdizione universale”, creare un organo giurisdizionale i n t e r n a z i o n a l e mentre si assiste all ‘indebolimento dell’organo politico (le Nazioni Unite), ha poco senso. E a ben guardare, più che di giudici e gendarmi, pur necessari, il mondo ha più che mai bisogno di politici che gurdino ben oltre la “siepe” leopardiana. SREBRENICA, 11 LUGLIO 1995 I sopravvissuti sono tornati a Srebrenica, per ricordare il massacro di sette anni fa: una delle pagine più nere dell’ultimo nerissimo conflitto jugoslavo. Non bastò certo quel nome di luce – città d’argento, il suo – ad illuminare quella tenebra fitta. Dei 28 mila musulmani che l’abitavano, ottomila uomini, fra i 12 e i 60 anni furono trucidati.Ventimila fra donne, vecchi e bambini riuscirono a fuggire e divennero profughi senza più identità. Appena un centinaio di loro è ritornato nella propria casa. Si trattò del più evidente esempio di quella pulizia etnica che Milosevic aveva inaugurato con l’intento di dare omogeneità alla Grande Serbia che voleva costruire. Radovan Karadzic e Ratko Mladic furono rispettivamente il leader politico o il capo militare serbo-bosniaci che resero il massacro esecutivo. Ma un’altra grande ombra pesa su di esso, confermata dal rapporto dell’Istituto della documentazione di guerra, che ha accertato la responsabilità dei caschi blu olandesi presenti sul posto, cui spettava il compito di garantire la protezione delle Nazioni Unite per quell’area, e che non mossero un dito. Notizia questa che ha fatto addirittura cadere il governo dell’Aja. Gravi responsabilità vengono però addebitate anche all’inviato dell’Onu Yasushi Akashi e al generale francese Bernard Janvier che rifiutarono l’intervento aereo, dando così di fatto mano libera ai serbi di compiere il massacro. Oggi, come si sa, Milosevic è detenuto sotto processo all’Aja dal Tribunale internazionale speciale per l’ex Jugoslavia. Karadzic e Mladic sono ricercati dallo stesso Tribunale. Ma responsabilità per le gravi omissioni che portarono al massacro, potrebbero venire imputate anche alle forze dell’Onu davanti al Tribunale penale internazionale, il che spiega, ma non giustifica, le perplessità che questa istituzione genera in alcuni paesi. La giustizia, tuttavia non può conoscere differenze di bandiere.

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