Se n’è andato Andrzej Wajda

Il regista della storia polacca. Il suo cinema resta una lezione di coscienza morale, di osservazione sull’uomo che fa e subisce la storia
Andrzej Wajda

Venerdì sarebbe dovuto arrivare alla Festa di Roma per presentare il suo ultimo film Afterimage sul pittore Wladyslaw Strzeminski, perseguitato nella Polonia del dopoguerra tanto da finire come arredatore di vetrine. I sovietici non scherzavano con quelli che non creavano arte “realistica”, in ogni campo, basti pensare ai musicisti russi come Prokofev e Sostakovic, condannati dal regime per alcune loro creazioni “non patriottiche”. Wajda a 93 anni, senza che ce l’aspettassimo – e forse nemmeno lui se l’attendeva – ci ha lasciato.

 

Ma molto rimane della sua opera di narratore di storia. Perché, al pari di pochi altri grandi registi, Wajda ha narrato la Storia, quella che si è svolta in Polonia – cuore malato d’Europa – per decenni, nel secolo ventesimo, talora servendosi del passato – come nel film su Danton e la rivoluzione francese – per raccontare il presente. Mai barocco, sempre asciutto, granitico talora, si direbbe: questo lo stile e, forse, l’uomo.

 

Diplomato alla scuola di cinema di Lodz nel 1954, esordisce con la cosiddetta “trilogia della guerra”: Generazione, I dannati di Varsavia (1957), ambientato nel ’44, oppone le angosce dei protagonisti ai dilemmi della storia polacca del momento, Cenere e diamanti (1958) racconta la crisi dei giovani polacchi bruciati dalla guerra.

 

Dalla storia della nazione sotto il nazismo e il comunismo passa ad una ricerca di interiorità, come in L’amore a vent’anni del 1962, tanto da diventare esponente di spicco della cosiddetta Nouvelle vague polacca. Ma il tema della guerra e della violenza lo affascina e lo rode, sembrerebbe.

 

Ne riparla in Paesaggio dopo la battaglia (1970), per poi scendere ai grandi film-metafora come L’uomo di marmo (1977), Direttore d’orchestra (1980), L’uomo di ferro (1981, Palma d’oro a Cannes). In questi film Wajda si apre, contamina linguaggi, ma resta fedele al cinema come impegno morale, indagando la sovietizzazione forzata dell’anima polacca con uno sguardo chiaro, dolente e in cerca della verità.

 

La Polonia come metafora dell’umanità piagata e convulsa, ottimista con l’avvento di Solidarnosc (cui aderisce, filmando Lech Walesa nel 2013) e del papa polacco, ma poi zeppa di problemi, tuttora irrisolti. 56 film, molte opere teatrali adattate da scrittori come Dostoevskji e il ritorno all’amata storia nel 2009 con Katyn, sull’eccidio ordinato da Stalin di 22mila soldati polacchi insepolti, tra cui suo padre.

 

Premi ne ha avuti molti, Wajda, come nel 2000 l’Oscar alla carriera, Orso d’oro a Berlino nel 2006, vittoria nel ’75 al Festival di Mosca. Chi è stato Wajda? Non è solo il narratore dell’epos polacco attraversato dalla sofferenza. Forse il suo cinema resta una lezione di coscienza morale, di osservazione sull’uomo che fa e subisce la storia, talora zigzagando, ma costantemente bruciato dalla ricerca della verità spesso nascosta sotto il dolore. Uno sguardo in profondità, da cui sono derivati gli Zanussi e i Kievslowski.

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