Se le città diventano smart: il futuro è ora
Tutto o quasi nel nostro mondo sta diventando, in tempi più o meno brevi, smart. Dai cellulari agli individui, alle città. Sì perché, diventare più smart si può: è una forma mentis. Basta semplicemente assecondare il cambiamento che ci sta interessando, piuttosto che opporvisi con un anacronistico spirito di conservazione. Di questo e di tanto altro si è discusso nella tre giorni “Potenza smart”, tenutasi al teatro Stabile nei giorni scorsi. Numerose le voci autorevoli che vi si sono avvicendate, da Giovanni Boccia Artieri a Luca De Biase fino a Derrick De Kerckhove, per citarne soltanto alcuni.
Il tutto muove da una constatazione di fatto: il futuro è già presente, più di quanto ce ne accorgiamo, perciò dobbiamo essere in grado di padroneggiarlo e di costruirci una nuova narrazione di noi stessi, a partire appunto dall’ambiente in cui viviamo, la città. Quest’ultima, a prescindere dalla propria dimensione, si configura come computer a cielo aperto, dove le prospettive sono sempre più collaborative e fatte di interazioni digitali. C’è un sostanziale spostamento verso uno spazio altro, quello immateriale. In buona sostanza, questo significa che gli spazi in cui noi ci muoviamo, non sono più solamente definibili in senso fisico, ma sono anche e soprattutto in termini di distanza, frutto di implicazioni sociologiche e interconnettive. Si potrebbe obiettare che le relazioni digitali impoveriscano il nostro vissuto tradizionale, in realtà avviene esattamente il contrario.
Arricchiscono di senso le nostre relazioni faccia a faccia, favorendo una maggiore proliferazione di idee. Ergo più idee, più cambiamenti. Più cambiamenti, più possibilità di migliorare le nostre condizioni di vita. Ma se è vero che le città sono incanalate verso questo processo inarrestabile, è altrettanto vero che ciò è determinato dal basso, dalle dinamiche sociali tra i cittadini. In definitiva, le città intelligenti sono quelle che usano le tecnologie per sfruttare al meglio le risorse, diminuendo i costi e migliorando i servizi. Si capisce facilmente come, a questo punto, divenga imprescindibile una educazione e una sensibilizzazione degli individui alle nuove tecnologie, perché è il modo in cui essi le usano a plasmare nuovi scenari futuribili.
In un libro di Steven Johnson, emerge chiaramente come le città tendano ad assumere proprie configurazioni, al di là di come vengono governate. Basta che gruppi umani più o meno consistenti facciano sistema, che piccoli iniziali cambiamenti si traducano in successivi vasti movimenti e in modifiche via via più ampie. Si delineano nuovi scenari urbani, ma si parte dal microcosmo dei quartieri. Quello che serve è senza dubbio, come emerso più volte, una visione del fenomeno.
E più di tutto, un’information literacy, un’alfabetizzazione dell’informazione che si costruisce solo unendo, non separando. Ciò che può premiare oggi, come ha sottolineato efficacemente De Kerckhove nella giornata conclusiva dei lavori, è una dimensione collaborativa non certo individualista. Mettere a sistema le intelligenze all’interno di una intelligenza collettiva, è ciò che più di ogni altra cosa può garantirci uno scatto evolutivo nel mondo del web 2.0, che stiamo vivendo.
Tutto passa attraverso la rete. Nascono così nuovi concetti di identità e di inconscio, che non possono prescindere dall’aggettivo digitale. Ognuno di noi è anche quell’insieme di relazioni amicali, lavorative che ha costruito nel web. Si tratta di una sfida indubbiamente aperta e stimolante che le generazioni attuali, dei nativi digitali, sono chiamate a raccogliere e a tradurre in termini di rinnovate possibilità di partecipazione sociale, affinché parole come digital divide siano soltanto un vecchio ricordo.