Se la religione non è oppio dei popoli
I percorsi aperti dal libro di Giorgio Bouchard su "La fede di Barack Obama. Quando la religione non è oppio" Claudiana
Anche chi non era d’accordo con il discorso che il presidente degli Stati Uniti ha tenuto ricevendo il premio Nobel della pace ad Oslo, ha rispettato l’onestà intellettuale con cui ha saputo affrontare la contraddizione esistente tra ritenersi figlio della lezione di Ghandi e Martin Luther King e, allo stesso tempo, stare al vertice del più grande esercito del mondo.
Per comprendere tale vicenda umana, occorre andare alle radici di questa figura emblematica: figlio di un padre africano, di tradizione musulmana, ma dichiaratamente ateo, e di una madre, espressione della cultura liberal che rispetta le tradizioni religiose, rimanendone comunque indifferente.
Quando Obama ha ricevuto il battesimo a 24 anni, già coordinava, a Chicago, il lavoro di associazioni cristiane contro l’esclusione sociale. Aveva davanti a sé rappresentati politici che palesavano la difficoltà o l’incapacità di poter offrire soluzioni reali e concrete ai drammi dell’emarginazione che segna il volto di tante città moderne.
Ora, da Presidente, è chiamato paradossalmente egli stesso a rispondere ad un’aspettativa di tipo messianica e quindi molto propensa alle disillusioni, dopo tanti anni di pretese sicurezze che hanno impantanato l’ultimo impero occidentale in una crisi dalle poche certezze.
Sono segni dei tempi da scrutare con il contributo di Giorgio Bouchard. L’autorevole studioso valdese ci introduce alla realtà del protestantesimo americano e a quel dibattito, di radice agostiniana, sulla teologia della storia che raramente riesce a varcare l’oceano. Esploriamo così la ricca ed eterogenea genealogia ideale di Obama che arriva, ad esempio, fino ad una “comune” di un ghetto nero di Washington dove vive Jim Wallis, uno dei suoi padri riconosciuti nella fede.
La scissione tra fede e modernità secolarizzata si ricompone nel riconoscimento di una natura umana segnata dal peccato che non conduce al pessimismo e all’alienazione, ma a quel realismo cristiano di cui è impregnata tutta l’opera e la vita di Reinhold Niebuhr. Per comprendere il primo presidente di colore degli Usa, infatti, non si può ignorare l’orizzonte culturale aperto da questo teologo che, prima di insegnare ad Harvard, svolse la missione di pastore nella Detroit degli anni venti opponendosi al potere della Ford. Un impegno sociale definito dalla scelta cristiana, propria di altri testimoni credibili come Martin Luther King o Dorothy Days, fondatrice dei Catholic Workers.
Il libro di Bouchard permette, così, di andare alla scoperta di un volto poco conosciuto dell’America, colta nei suoi conflitti sociali dove la risposta di tanti cristiani mostra una fede che non è alienazione o fuga consolatoria dal mondo.
Questo è ciò che ha incontrato Obama e lo ha portato alla conversione senza abiurare le proprie origini, che sono come il Dna della cultura contemporanea. Interessante, in tal senso, il riferimento che l’Autore pone con quella riflessione che in Italia sta affiorando in testi come quello di Giancarlo Bosetti, su “Il fallimento dei laici furiosi”, a proposito di una fede che non può essere catalogata in una rassicurante versione di religione civile, ma deve avere piena cittadinanza come espressione di richiesta di senso della vita e della convivenza umana. Tanti percorsi che rimangono ancora aperti, dunque, e senza soluzioni preordinate se non quelle che il nostro tempo mostrerà.
Rimane, alla fine del libro, il desiderio d approfondire quel filone culturale che rimanda a Niehbur, autore di quel testo fondamentale, Il paradosso della storia americana, pubblicato nel 1952 e capace di analizzare la storia degli Stati Uniti nella sua evidente contraddittorietà: ritenersi propositori di una democrazia modello e pianificatori dello sterminio degli indiani e dello schiavismo dei neri, esportatori di libertà e sostenitori di dittature, amanti della pace e autori delle bombe atomiche e così via.
Alla radice esiste una consapevolezza della condizione umana che non santifica la propria posizione o i propri interessi, ma apre al dialogo, alla possibilità di cambiare, di convertirsi. Così da poter ripetere, con Niehbur, che «la capacità dell’uomo per la giustizia rende possibile la democrazia, ma la sua inclinazione verso l’ingiustizia rende la democrazia necessaria».
Una buona premessa per affrontare i vari temi che saranno sempre più emergenti nell’agenda che verrà imposta ad Obama. Dalla riforma sanitaria, alle cellule staminali ed aborto, dal petrolio al nucleare, dalla crisi economica che aumenta le diseguaglianza alla guerra che non è più proclamata santa ma dichiarata giusta, conducendo centomila soldati Usa a schierarsi in Afghanistan. Ben sapendo, come ha detto nel discorso per il Nobel, che «la guerra, per quanto giustificata possa essere, porterà sicuramente con sé tragedie umane».