Se il Dalai Lama si dimette

Un’antica profezia tibetana dice che ci saranno solo diciassette Dalai Lama. Dopo, questa istituzione antica terminerà e, comunque, non avrà più motivo di esistere. Sarà questo il momento?
dalai lama

Il Dalai Lama, capo spirituale e politico del Tibet, rappresenta un’istituzione nata formalmente nel 1587, quando il Grande Lama della Gelug-pa, la setta dei Virtuosi, perché celibi, noti anche come Berretti Gialli, fu chiamato per la prima volta Dalai Lama, un titolo conferito dal re mongolo Altan Khan. Dalai, infatti, è un termine che viene dalla lingua mongola e significa grande, o più precisamente grande come l’oceano intero. Il termine Lama indica, invece, la saggezza di un maestro. Il titolo conferito al capo supremo del buddhismo tibetano è, quindi, sinonimo di un maestro la cui saggezza è immensa, come lo è l’oceano. Per circa cento anni il capo del buddhismo dello stato posto sul tetto del mondo fu solo un leader spirituale. Ma nel 1641 la sua autorità si sposò anche al potere temporale, che di fatto detiene ancora oggi.

 

Queste poche note sono sufficienti per inquadrare la portata del recente intervento del XIV Dalai Lama, Tenzin Gyatso, che a settantasei anni, ha annunciato la sua intenzione a dimettersi da capo politico per limitare la sua autorità all’ambito spirituale. Il 10 marzo il XIV Dalai Lama si è rivolt, come ogni anno al suo popolo, per ricordare la rivolta contro il governo cinese del 1959. La sua conclusione ha colto di sorpresa un po’ tutti. Ha dichiarato, infatti, che ormai «i tibetani hanno bisogno di un leader eletto liberamente dalla gente, al quale affidare la gestione del potere. Ormai siamo arrivati al momento di mettere in atto tale decisione».

 

Non è a prima volta che il Dalai Lama parla di dimissioni, ma come sempre, la notizia delle sue intenzioni ha lasciato nello sgomento il popolo intero, che non può disgiungere il ruolo spirituale da quello politico del leader buddhista. Per i tibetani, il Dalai Lama è, infatti, il Buddha Vivente e la sua scelta alla morte del Dalai Lama precedente è frutto di un processo lungo ed elaborato. Per la gente del Tibet l’attuale reincarnazione del Buddha è particolarmente significativa. Rappresenta, infatti, la resistenza della cultura, della tradizione e della religiosità di un popolo contro lo strapotere cinese. Il Dalai Lama, in questi decenni, ha combattuto questa battaglia come uomo, come monaco e come mistico. Spesso il suo ruolo politico e mondano ha messo in evidenza la dimensione umana a scapito di quella monastica e di quella mistica, ma a chi lo ha incontrato o sentito parlare non può essere sfuggita la presenza di entrambe ad assicurare un atteggiamento pacifico nell’affrontare una questione spinosa di diritto internazionale, per la quale ha sempre lavorato e combattuto, non venendo mai meno alla dimensione spirituale. Sono proprio queste due caratteristiche che gli hanno guadagnato il Nobel per la Pace.

 

Il Dalai Lama, dunque, come aveva fatto in passato, ha proposto di abbandonare il ruolo politico, ma ha assicurato la sua gente che continuerà come leader religioso. La maggior parte dei Tibetani sono contrari alle intenzioni del Dalai Lama, a cominciare dal Kashag, il parlamento in esilio, che ha dichiarato che un «gran numero di Tibetani ha supplicato Sua Santità di non compiere questo passo».[2] Il leader è certo che poco a poco la gente capirà.

 

La reazione del Governo cinese non si è fatta attendere, accusando il leader tibetano di voler manipolare l’opinione pubblica. Se alcuni commenti o interventi delle autorità di Pechino sono ormai largamente previste, sorprende invece l’intervento dell’attuale Governatore del Tibet, il quale ha affermato la necessità che il Dalai Lama non interferisca nella scelta del suo successore, che deve avvenire secondo la tradizione, in osservanza del principio della reincarnazione. Già alla fine degli anni ottanta il governo cinese era intervenuto nella questione della nomina del Panchen Lama, la seconda figura nella gerarchia del buddhismo tibetano. Senza mai aver accettato la decisione del Dalai Lama, che aveva riconosciuto la reincarnazione in un ragazzo tibetano, il governo cinese si schierò per un altro giovane mettendo agli arresti domiciliari il primo.

 

La questione è, senza dubbio, delicata, sia dal punto di vista religioso come da quello della identità nazionale e culturale del popolo tibetano. Inoltre, non lascia indifferenti né la Cina, che ha tutti gli interessi a normalizzare i suoi rapporti con il Tibet, né l’India, che dal 1959 ha il Dalai Lama ed il suo governo in esilio sul proprio territorio e deve mediare questa sua concessione di asilo al leader tibetano per mantenere rapporti sereni con Pechino.



[1] Cfr. M.Chhaya, Dalai Lama, Unomo, monaco e mistico, Urra, Milano, 187

[2] Cfr. The Economist, 14 Marzo 2011.

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