Se il calcio perde la testa
Se gli stadi italiani si svuotano, probabilmente, buona parte dei motivi è da ricercare in fatti incresciosi che con il calcio non hanno proprio nulla a che vedere, o per lo meno non dovrebbero: perché spensieratezza e sano agonismo sportivo sembrano più sicuri da provare davanti alla tv a pagamento, anziché nei palcoscenici del calcio all’aperto? Gli ultimi giorni ce ne hanno fornito alcuni esempi lampanti, per i quali il mondo del pallone sembra davvero vivere un’inverosimile realtà a sé stante.
Nei giorni scorsi, durante la partita Roma-Napoli, la curva sud giallorossa ha pensato bene, oltre ad intonare i soliti inqualificabili cori anti-napoletani, di srotolare due striscioni rivolti ad Antonella Leardi, mamma di Ciro Esposito, il giovane morto in seguito a tragici scontri precedenti la finale di Coppa Italia tra Napoli e Fiorentina, giocata all’Olimpico il 3 Maggio scorso. «Che cosa triste… lucri sul funerale con libri e interviste!». E ancora: «C'è chi piange un figlio con dolore e moralità e chi ne fa un business senza dignità. Signora De Falchi onore a te». Questo il contenuto esposto dalla curva senza fare riferimento diretto alla donna, “rea” di avere presentato il libro “Ciro Vive” pochi giorni fa proprio per ricordare il figlio scomparso. La signora De Falchi menzionata è la mamma di Antonio De Falchi, morto a 18 anni il 4 giugno del ’89 prima di un incontro Milan-Roma.
Striscioni davvero infami e incommentabili, quasi a sancire una presunta superiorità dell’essere ultras, oltre il dolore, oltre la vita e la morte, per ragioni che con lo sport poco hanno a che vedere.
Significativa la risposta della signora Leardi: «Striscioni orribili. Purtroppo non tutti hanno la stessa testa e dei principi. Pregherò per loro, affinché Dio possa cambiare i loro cuori. Continuerò la mia lotta al di là di quello che possono dire».
Altrove, in Europa, le società hanno espulso i responsabili anche a vita fuori dallo stadio. In proposito chiediamo invece alla FIGC, alle società e, per quanto possibile, alle istituzioni dello Stato: perché si privilegiano sedicenti “tifosi organizzati”, gli stessi che spesso gestiscono affari commerciali in accordo con le società? E’ impossibile allontanare dagli stadi razzisti e violenti? Chiediamo ancora perché gli stadi italiani non possono essere semplici luoghi di grande spettacolo, per famiglie, come accade ad esempio nella grande e nota NBA negli USA? Forse perché una costante trattativa con alcune persone che hanno fatto di tale “sostegno” alle proprie squadre un lavoro? Una decina di anni fa, l’allenatore Fabio Capello, già campione d’Italia con il Milan e la Roma, affermò che «il calcio italiano è in mano agli ultrà».
Nessuno criminalizzi a prescindere il tifo organizzato ma è inutile sperare di cambiare finché non ci sarà parità di trattamento tra spettatori normali e cosiddetti “ultras”. Finché ad esempio, allo spettatore verrà sequestrata qualsiasi cosa mentre in curva continueranno “misteriosamente” ad apparire razzi, striscioni inqualificabili, se non motorini (!?!?). Forze dell’ordine, società e autorità conoscono i facinorosi: mettano fine a questo scempio, dove pochi si permettono qualsiasi vergogna, godono di privilegi e impongono le loro sporche regole al resto del pubblico.
In Turchia è accaduto anche di peggio: il pullman della squadra di calcio del Fenerbahce è stato assaltato lo scorso finesettimana da un gruppo armato. Gli autori devono ancora essere identificati ma il dato certo è che, al rientro dalla trasferta sul campo del Rizespor, a Trebisonda, l’autista è stato ferito gravemente in quello che secondo le prime interpretazioni risulta un raid a base di spari degli ultrà rivali. Nessuno dei giocatori è rimasto ferito, ma il vicepresidente della società Mahmut Uslu ha raccontato il panico vissuto: «Volevano ucciderci tutti, il pullman era su un viadotto e se l’autista ferito non fosse riuscito a fermare il mezzo saremmo caduti tutti di sotto». Il calcio di questi ultras non è calcio e, forse, non è nemmeno un’attività minimamente civile: se dissociarsi è la prima cosa da fare, agire su tutti i livelli, formativi, sportivi e istituzionali è l’unico modo per non rendersi complici.