Se entra in crisi anche la Volkswagen

Europa al bivio dopo il trionfo prevedibile di Trump. Come in altre epoche il disagio sociale delle classi medie apre scenari inquietanti, con la corsa al riarmo presentata come necessità geopolitica. La rivolta morale possibile a partire dalle scelte di politica economica. Un Giubileo dei lavoratori contro la guerra
Assemblea dei lavoratori Volkswagen in Germania EPA/JULIAN STRATENSCHULT / POOL

«La sconfitta di Kamala Harris testimonia il declino della sinistra chiusa nella propria bolla e ossessionata da temi che non esistono nella vita reale delle persone come woke, cancel culture, gender e lontana da popolo e working class a cui hanno saputo parlare Trump e JD Vance». La tesi esposta così sinteticamente da Francesco Giubilei, di Nazione Futura, think tank in ascesa della destra in Italia, è condivisa da molti commentatori di diversa estrazione politica.

Lo ha messo in evidenza, prima delle presidenziali Usa, Franco Bernabè nel libro intervista con Paolo Pagliaro intitolato «In trappola. Ascesa e caduta delle democrazie occidentali (e come possiamo evitare la Terza guerra mondiale)». L’esponente di rilievo della classe dirigente del nostro Paese, scelto da Draghi per gestire la complessa vicenda dell’ex Ilva, definisce disastrosa la strategia delle economie occidentali di delocalizzare la manifattura all’estero e riconosce il dato oggettivo di un reddito reale che è rimasto inchiodato da circa 30 anni per la classe media del nostro Paese.

D’altra parte anche la politica bipartisan e i media principali, a cominciare dal Corsera, uscito dal controllo del  fondo Exor (finanziaria olandese controllata dagli eredi Agnelli), sono sempre più critici verso il gruppo automobilistico Stellantis in progressiva ritirata dal nostro Paese. La strategia dell’era Marchionne – accettare limitazioni di alcuni diritti sul lavoro in cambio di una maggiore competitività nel mercato internazionale – non sembra aver raggiunto gli obiettivi indicati, ma nel frattempo i sindacati si sono spaccati e l’azienda è uscita da Confindustria.

La “bomba” Volkswagen

Ma se, purtroppo, il caso Stellantis non sorprende più nessuno, il vero terremoto è arrivato dall’annuncio fatto dal gruppo Volkswagen di voler chiudere addirittura 3 stabilimenti in Germania. A lungo quel modello avanzato di impresa tecnologica è stato additato come un modello virtuoso da imitare anche per la previsione degli strumenti di co-decisione da parte dei lavoratori, che eleggono i loro rappresentanti nel consiglio di sorveglianza della società. Si può quindi intuire lo sconcerto di Daniela Cavallo, di evidente origine italiana, che guida il sindacato metalmeccanico alla Volkwagen.

Assemblee spontanee sono state indette in tutti gli stabilimenti davanti alla seria minaccia di procedere a 10 mila licenziamenti all’interno del territorio della nazione più volte indicata come locomotiva d’Europa.

Si temono ovviamente effetti a catena lungo tutta la catena dell’indotto, che tocca da vicino anche i fornitori della componentistica d’eccellenza presente soprattutto nel nord Italia.

Costruire automobili è un lavoro da giganti, come dicono gli esperti del settore, perché comporta la capacità di assemblare migliaia di elementi provenienti da luoghi di produzione sparsi nel pianeta, a cominciare dai preziosi microchip strettamente connessi alla disponibilità dei metalli rari che sono al centro di un’intensa competizione tra le potenze economiche. Forti segnali di crisi per il comparto dell’automotive arrivano anche dalla Nissan, che ha annunciato 9 mila licenziamenti, e dalla Michelin, intenzionata a chiudere due stabilimenti in Francia entro il 2026.

Gli effetti recessivi di un’economia di guerra

Nel caso della Germania si comprende facilmente l’incidenza della crisi nella fornitura di energia a costo contenuto dalla Russia a causa della guerra in Ucraina. Resta da accertare pubblicamente la regia del sabotaggio del Nord Stream2 avvenuto nel Mar Baltico. L’esplosione del gasdotto è un vero e proprio atto di guerra subito dai tedeschi dopo la fine del secondo conflitto mondiale.

Ma di una vera e propria economia di guerra si può parlare con la decisione del governo di Berlino, che ha scelto di investire sempre di più nel settore degli armamenti. Ne beneficia la multinazionale Rehinmetall che ha aperto nuovi stabilimenti, inaugurati direttamente dal cancelliere Scholz, davanti alla prospettiva di durature forniture richieste dal permanere del conflitto in Ucraina. Anche l’espansione del conflitto in territorio russo viene presentata in vista di una possibile tregua destinata a restare armata, con la necessità di predisporre nuovi sistemi di difesa a scopo di deterrenza.

Le aspettative di questo warfare non sembrano, tuttavia, scongiurare la necessità di misure di austerità economica sulle quali è esplosa la crisi di governo tra il cancelliere socialdemocratico e il ministro delle finanze, il liberale Lindner, fino a prefigurare la necessità di andare alle urne nel marzo del 2025. Una prospettiva che si presenta inquietante considerando la rapida crescita elettorale del partito di destra Afd con componenti nostalgiche di un passato finora innominabile.

Si potrebbe profilare, perciò, a seconda dei risultati, una possibile alleanza governativa, anche a fini contenitivi, tra la Cdu e Afd, come avvenuto in Olanda dove i liberali di Mark Rutte, divenuto nel frattempo segretario generale della Nato, si sono accordati con l’estrema destra di Geert Wilders.

Anche in Francia appare possibile la conquista della presidenza nel 2027 da parte del partito di Marine Le Pen che guida uno dei due raggruppamenti di destra usciti rafforzati nelle ultime elezioni europee del giugno 2024, mentre in Italia una larga maggioranza parlamentare sostiene il governo di Giorgia Meloni, leader del partito fieramente erede del Movimento sociale italiano.

Trump e l’Europa

Nonostante l’apparente sconcerto sui media, i vari think tank avevano previsto la vittoria di Trump negli Usa che impone la necessità di arrivare a scelte importanti in Europa. Come ha affermato l’organo dell’Istituto Aspen Italia, uno dei pensatoi trasversali della classe dirigente italiana, Trump ha «già dimostrato di considerare l’Unione Europea un avversario economico-commerciale o tutt’al più un partner ben poco affidabile – si ricordano le sue congratulazioni per la Brexit – ed è ben deciso ad interagire con i governi europei in chiave strettamente bilaterale», suscitando cioè la concorrenza tra i Paesi dell’Unione.

Il deciso negazionismo climatico del nuovo inquilino della Casa Bianca andrà in direzione opposta al new green deal europeo che, tra l’altro, ha già cominciato a dare segnali di ripensamento, mentre «il protezionismo senza appello propagandato da Trump, con le barriere tariffarie orizzontali che ha intenzione di mettere su tutto l’import» danneggerà fortemente l’industria europea.

Appare perciò sempre più decisivo il confronto sul Rapporto Draghi sulla competitività dell’Unione Europea da rafforzare di fronte al predominio di Usa e Cina. Le misure proposte richiedono forti investimenti sostenuti dall’emissione di debito pubblico condiviso, come avvenuto con l’emergenza Covid ma in maniera molto più consistente.

Uno dei settori da potenziare, secondo Draghi, è quello della difesa, che appare poco efficiente perché frazionata in tanti Paesi. L’aumento della spesa militare richiesto dalla Nato ha trovato l’adesione convinta della Polonia che con Germania e Francia, considerate tuttora le nazioni guida della Ue, condivide un’alleanza strategica denominata “triangolo di Weimar” – che prende il nome dall’accordo siglato nel 1991 in quella città simbolo della Repubblica tedesca abbattuta nel 1933 con l’avvento del nazismo, avvenuto per via elettorale dopo una lunga crisi economica.

Per poter rivendicare un ruolo geopolitico non subalterno al triangolo di Weimar, l’Italia non può che puntare a crescere sul piano delle spese militari che restano non coordinate con i nostri alleati (la Francia è la maggior competitor dell’export italiano di armi).

Come riporta infatti l’Osservatorio Milex, la legge di bilancio 2025 prevede una crescita delle spese militari del 12% in confronto al 2024, mentre 4,6 miliardi di euro sono stati dirottati dal settore dell’auto per la transizione ecologica a quello della Difesa.

È facile fare l’equivalenza tra i soldi spesi per un cacciabombardiere e quelli necessari per evitare l’attesa di un anno per una Tac in ospedale o la messa in sicurezza delle scuole pubbliche che cadono a pezzi. Un sondaggio commissionato da Greenpeace afferma che la maggioranza degli italiani è contraria all’aumento delle spese militari, ma il risultato delle urne elettorali dice altro con un parlamento che vota compatto per la scelta strategica del riarmo.

Il disagio sociale che interessa tutti i Paesi sviluppati, come riporta l’ultimo rapporto Ocse, sembra spingere il consenso verso la necessità di una difesa dei propri interessi, anche con le armi.

Quale rivolta sociale?

Recentemente Maurizio Landini è stato criticato fortemente per aver evocato la violenza parlando della necessità di una rivolta sociale, ma veri e propri disordini si sono realizzati il 6 gennaio del 21 con l’assalto a Capitol Hill da parte dei sostenitori di Trump, e nell’ottobre dello stesso anno alla sede centrale della Cgil da parte dei manifestanti novax guidati dai leader di Forza Nuova.

Del tutto pacifica è stata invece la manifestazione per la pace promossa il 26 ottobre 2024 in diverse città italiane per chiedere in sostanza un ruolo attivo dell’Europa per fermare le carneficine in atto dal centro del Vecchio Continente al Medio Oriente.

In quella giornata, a Roma vicino al Colosseo, è intervenuto Landini annunciando l’idea di un grande incontro internazionale dei lavoratori durante il Giubileo incentrato sulla scelta di pace. Una proposta che rimanda alla storia della rottura della solidarietà dei lavoratori dei diversi Paesi in vista del primo conflitto mondiale contrasta in Italia da Giacomo Matteotti. Una scelta tragica segnata dall’assassinio, nel luglio del 1914, del sindacalista Jean Jaures in Francia.

Il rifiuto, a livello internazionale, delle lavoratrici e dei lavoratori di concorrere alla corsa al riarmo è una rivolta che incuterebbe più timore di mille bombe molotov. Una sfida possibile, per non restare nella retorica, solo proponendo serie e credibili politiche economiche alternative.

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