Se Amleto perde la memoria

In Preamleto Michele Santeramo, partendo dall’opera di Shakespeare, racconta cosa succede prima della morte di Re Amleto, analizzando in chiave contemporanea il concetto di potere. “ll potere a questo serve: a continuare a comandare”.
Amleto

Dentro un bunker di cemento con porte e botole, tra tagli di luce fredda e suoni cupi, si esplorano, con acutezza, patologie del potere, di scontri generazionali, di infermità mentali. E di dinamiche teatrali in atto tra finzione e realtà da rimodellare.

 

Il Preamleto di Michele Santeramo è una disamina di relazioni malate che partendo dall’Amleto scespiriano, arrivano a svelarci dinamiche famigliari, politiche, malavitose, di fattura odierna; dove la parola “vendetta” può determinare, se applicata o meno, il corso degli eventi. Come lo è stato per il principe di Danimarca, vendicatore del padre assassinato per mano del fratello Claudio. C’è un ribaltamento di prospettiva in questa indagine operata da Santeramo con l’acuta regia di Veronica Cruciani, sul grande classico di Shakespeare, immaginando quello che potrebbe essere accaduto prima degli eventi della tragedia che tutti conosciamo. Perché non c’è solo un’unica verità. Qui il re non ha più memoria.

 

“È più facile comandare se si dimentica tutto”, dirà al figlio venuto a trovarlo con l’intenzione di proteggerlo ma con ambizioni anche lui nel rivendicare il suo ruolo di guida. L’anziano non ricorda niente, non riconosce né moglie, né figlio, né fratello. E il suo stato di smemorato ispira ilarità e tenerezza. Ha solo brevi squarci di ricordi. E intanto, fisicamente in forma, tra lampi di demenza e lucidità temporanea, mostra briciole di saggezza stando seduto nella sua poltrona che lo regge ancora formalmente al comando regale da boss. Attorno a lui, nel giorno del suo compleanno, fremono complotti per tenere nascosto il suo stato da sindrome di Alzheimer, e poter dare avvio al cambio di scettro, per la brama di potere e di sopraffazione.

 

Si mostrerà infine come fantasma inscenando, complici i suoi stessi detrattori, una morte per omicidio da far credere al solo figlio per addossargli la colpa di non essergli stato vicino. Ed è qui, nel dialogo apparentemente delirante, che si consumeranno parole di senso: “Non vendicare mai la mia morte… Non vendicarmi mai!”, chiede, nel finale, scendendo dalla pedana del bunker-ring, l’anziano padre al figlio. Questi, sentendosi responsabile e certo di vaneggiare, abbandonerà la scena lasciando le redini del nuovo potere alla nuova coppia di sovrani e assassini: lo zio Claudio e la madre Gertrude, che si sistemano in posa da foto attorno alla poltrona regalee con accanto Polonio, il consigliere timoroso, sempre indeciso, ma sempre pronto a saltare sul carro dei vincitori.

 

Encomiabile il quintetto di attori con in testa Massimo Foschi, e Manuela Mandracchia, Michele Sinisi, Gianni D’addario, Matteo Sintucci.

Al Teatro Argentina di Roma fino al 10 aprile. Produzione Teatro di Roma.

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