Per una scuola che sia laboratorio sociale
Anna D’Auria è presidente nazionale del Movimento di cooperazione educativa (Mec): una realtà nata il 4 novembre 1951 a Fano nell’abitazione della maestra Anna Marcucci Fantini, e che riunisce insegnanti, pedagogisti ed educatori che si ispirano alla pedagogia popolare dell’insegnante francese Célestin Freinet. Ci facciamo spiegare direttamente da lei le origini e l’opera del Mec e le proposte attuali che da esso nascono.
Quali sono i fondamenti pedagogici e sociali del Movimento di cooperazione educativa?
Il Movimento di cooperazione educativa è stato fondato nel 1951 da un gruppo di educatori, insegnanti, pedagogisti che riconoscevano alla scuola una precisa funzione sociale di emancipazione, alla cui base c’era l’individuazione forte del nesso tra democrazia ed educazione, su cui aveva scritto J. Dewey nel 1916. Pensavano che fosse compito della scuola lottare contro la povertà culturale e materiale, proponendo un’educazione laica, attenta alle diversità, capace di riconoscere i bisogni e la cultura di ogni bambino e la dignità dell’altro come condizioni imprescindibili per qualsiasi educazione alla cittadinanza, nella comune convinzione, che i problemi della pedagogia non possono essere separati da quelli politici, sociali, etici e che «trasformare i sudditi in cittadini è un miracolo che solo la scuola può compiere» (come diceva Calamandrei).
Animati da un forte fervore educativo, è a partire dall’infanzia che intendevano ricostruire socialmente e moralmente il Paese, uscito dal fascismo e dalla guerra, attraverso un’educazione concepita come primario strumento di progresso sociale e di pace e un ripensamento radicale del ruolo della scuola e degli insegnanti secondo le esigenze democratiche della Costituzione.
Alla base della proposta Mce l’esigenza di una psicopedagogia dell’infanzia e dell’adolescenza da mettere al centro dell’azione educativa; di un insegnamento individualizzato e organico sia rispetto ai contenuti funzionali allo sviluppo armonico della personalità di ogni soggetto, sia rispetto all’esigenza di un lavoro interconnesso: tra bambini/studenti e insegnanti, tra scuola e ambiente sociale; l’attenzione all’autonomia e allo sviluppo di uno spirito critico a partire dal riconoscere la dignità culturale di ognuno, oggi fondamentale per lavorare in un orizzonte pedagogico intenzionalmente interculturale; l’operatività e il ruolo del corpo come base fondante per imparare agendo; il rifiuto di pratiche didattiche autoritarie e l’organizzazione cooperativa della classe «per permettere ad ognuno di diventare membro cosciente di un collettivo nel quale, per non perdersi, la sua individualità risulta sublimata nella conquista di un valore superiore che dà al ragazzo coscienza sociale, senso di responsabilità, capacità critica, spirito di solidarietà, in una parola maturità umana» (come afferma G. Tamagnini).
I pionieri del Mce, in un Paese in cui dominava autarchia pedagogica, si ispirarono alla Pedagogia Popolare di Celéstin Freinet e avviarono, sin dagli esordi, un lavoro di riflessione e di ricerca sulle pratiche didattiche da lui proposte: il metodo naturale, il testo libero, la biblioteca di classe, la corrispondenza, il calcolo vivente, il piano di lavoro, l’assemblea di classe, per citarne alcune, il cui presupposto è il rifiuto di un insegnamento direttivo, uguale per tutti, in uno spazio aula organizzato come blocco unico.
Quale contributo hanno dato Mario Lodi e Bruno Ciari al rinnovamento della scuola italiana?
Mario Lodi e Bruno Ciari sono stati, e restano ancor oggi, un riferimento fondante per la riflessione pedagogica e per l’orientamento alle politiche scolastiche.
La loro esperienza, il loro impegno culturale e pedagogico hanno dato un contributo straordinario nel tracciare la strada all’innovazione pedagogica e alla costruzione di una visione condivisa del compito repubblicano del sistema scolastico. Ciò in particolare nella fase delle grandi riforme della scuola: istituzione della scuola materna, della scuola media dell’obbligo, del tempo pieno, l’integrazione con la chiusura delle istituzioni segreganti, la L.517 che introduce le classi aperte, l’abolizione del voto e la valutazione formativa, la programmazione didattica. Riforme che Ciari non ha visto tutte realizzate perché precocemente scomparso nel 1970.
La loro attività di ricerca didattica, riflessione pedagogica e la grande opera di documentazione della loro esperienza di insegnamento nelle classi di Piadena e Certaldo continuano, a decenni di distanza, a far crescere in diverse generazioni di insegnanti la consapevolezza che la leva principale del cambiamento per una scuola emancipatrice è una didattica capace di modificare “materialmente” l’organizzazione concreta del lavoro in classe. Perché il modo in cui si realizza la relazione insegnamento apprendimento porta in sé una precisa visione e concezione del mondo, del rapporto tra i soggetti, tra i saperi e le discipline e ha un forte potere simbolico, facendosi implicitamente curricolo. Pensiamo oggi all’educazione civica e alla cittadinanza in una scuola in cui infanzia e adolescenza non hanno la possibilità di sperimentare spazi di parola, di partecipazione, di responsabilità; dove a prevalere è un clima competitivo e l’insegnamento si accontenta di risposte corrette più che promuovere nei soggetti vera comprensione, pensiero riflessivo, spirito critico, apertura all’incontro con l’altro, pratiche di autovalutazione.
Nella proposta pedagogico-didattica di Lodi e Ciari, come di tutto il Mce, sono centrali le tecniche didattiche cooperative che «… attuano una serie di valori umani che il fanciullo non possiede in sé e che può assimilare non per il fatto di adoperare un complessino tipografico, ma col realizzare un complesso di rapporti sociali che implicano una determinata concezione del mondo». (nella parole di B. Ciari).
Sono pratiche del fare scuola che rompono con le modalità di insegnamento/apprendimento trasmissive (ancora troppo diffuse nella scuola italiana), centrate unicamente sul circuito lezione frontale-libro-verifica-voto, sul lavoro individuale, ma anche sulle porte e cancelli chiusi di aule e edifici e documentano come la scuola e la classe possono diventare la prima significativa esperienza sociale di costruzione e sperimentazione di un collettivo dove costruire, sin da piccoli, in modo organizzato e rigoroso, la democrazia con la democrazia.
Il loro lavoro di insegnanti, ma anche di amministratori locali, mostra come sia possibile cambiare le cose lavorando a mutamenti fattibili nelle condizioni date con pragmatismo, sperimentalismo, spirito di ricerca, nella consapevolezza che, indipendentemente da interventi burocratico amministrativi, si possa costruire dal basso, nuove forme di convivenza civile a partire dalla scuola e dal sociale.
Lodi nel Paese sbagliato scriveva «Ciò che siamo si rivela subito il primo giorno, quando di fronte ai bambini devi decidere come impostare il tuo lavoro: per asservire o liberare». Fondamentale per lui l’impegno a spiegare e far praticare la Costituzione «…per imparare a usare la vera politica, fatta da persone elette perché oneste e competenti, che sono al servizio del popolo e credono nei grandi ideali che hanno fatto la storia dell’umanità».
Bruno Ciari ha dato un forte impulso alla crescita della consapevolezza che la responsabilità educativa va condivisa, richiamando a un agire cooperativo le istituzioni comunali, gli insegnanti, i genitori, le formazioni sociali, la società civile. Negli anni in cui è stato direttore dei servizi educativi nel comune di Bologna, riuscì a fare della città un laboratorio pedagogico e sociale.
«Gli specialisti devono proiettarsi al di fuori del guscio rigido dell’aula o del loro settore d’impegno, la società deve penetrare nel sacrario dell’educazione, con pieno diritto. Non più porte chiuse, non più saracinesche abbassate» (sono sempre parole di B. Ciari)
Oggi, in un tempo in cui prevalgono povertà educative, dispersione e abbandoni, dove c’è guerra e la stessa democrazia è a rischio, ripercorrere il loro pensiero, il loro esempio di maestri per una scuola capace di rimuovere gli ostacoli, come è stato fatto nel 2022 nel centenario della nascita di Mario Lodi e si farà nel 2023 per quello di Bruno Ciari e di Don Lorenzo Milani è un monito e un’occasione per rinforzare la convinzione che insegnanti, educatori e quanti sono impegnati nel compito educativo, possono lavorare per produrre una trasformazione dal basso, vivendo la scuola, il territorio come strumenti attivi di crescita collettiva e di cultura alternativa per contrapporre all’individualismo la cooperazione, agli egoismi la solidarietà, agli etnocentrismi e nazionalismi la consapevolezza di appartenere alla stessa comunità di destino.
Quali sono le proposte del Mce per contrastare oggi le povertà educative e la grave dispersione scolastica?
È da tempo che i dati che emergono da indagini nazionali e internazionali non solo confermano che la scuola italiana, che dovrebbe essere anche dei capaci e dei meritevoli privi di mezzi, la maggior parte delle volte, piuttosto che metterle in crisi, sembra invece confermare le strutture di classe, e che una quota sempre più rilevante di bambini e di giovani restano confinati nelle periferie sociali, educative, emotive con grave perdita di potenziale di cittadinanza attiva e consapevole.
Di fronte alle nuove forme di esclusione sociale e culturale, ai nuovi analfabetismi non sono cambiate le motivazioni per le quali, il Mce è impegnato per una scuola come laboratorio sociale, luogo in cui si vivono e si apprendono le pratiche della democrazia, vengono liberate le intelligenze, le creatività e a ognuno, indipendentemente dalle condizioni sociali e culturali di partenza, vengono garantite le condizioni per esprimere e sviluppare tutte le sue potenzialità.
La leva principale in questa direzione è puntare alla costruzione di nuovo rapporto tra politica e scuola, tra politica e società civile, investendo di più sulla partecipazione, costruzione e valorizzazione dello spazio collettivo (tra l’altro spazio necessario a legittimare la stessa azione politica) per sollecitare responsabilità educativa diffusa.
Le autonomie presenti su un territorio, scuola ed Ente locale devono poter essere i protagonisti dell’impostazione e della strutturazione delle coordinate in cui progettare le azioni collettive necessarie al cambiamento. Ma serve mettere mano, e con coraggio, a un ripensamento complessivo del modello di scuola, di governo del territorio, di partecipazione per il superamento delle disuguaglianze e per realizzare più democrazia nel Paese. Senza una visione complessiva è infatti grande il rischio di rispondere alla crisi del sistema scolastico e alle povertà educative in una logica emergenziale che non sarà in grado di produrre i cambiamenti necessari a eliminare le condizioni strutturali che determinano l’insorgere di dispersione e abbandoni e il permanere di forti disuguaglianze nel riconoscimento dei diritti per infanzia e adolescenza sanciti dalla Convenzione Onu, ratificata in Italia nel 1991 con la legge n. 176.
I patti territoriali continuano a rappresentare l’orizzonte di senso per un progetto di scuola democratica, inclusiva, equa e a cui hanno lavorato negli anni 70 tanti maestri, pedagogisti Mce.
La formazione dei futuri cittadini riguarda tutta la società e l’alleanza strutturata tra Scuole, Comuni, associazioni, famiglie, studenti permetterebbe di porre al centro delle politiche educative i principi di solidarietà e di responsabilità che sono alla base del rapporto individuo-società a fondamento della nostra democrazia.
Occorre però costruire luoghi di partecipazione a livello territoriale per individuare e ragionare sui bisogni educativi dei minori, su quelli della scuola, del territorio; per attivare e valorizzare le risorse in campo e progettare azioni collettive in grado di sostenere il progetto di vita di ciascuno. Si tratta di istituire a livello locale un ‘patto sociale’ per fare dei processi relazionali tra gli individui, tra formazioni sociali e tra questi e le autonomie istituzionali del territorio una base per le trasformazioni sociali ed educative necessarie al Paese. Ciò richiede però, accanto a una diversa politica di governo dei territori dotando gli Enti Locali di risorse certe, strutturali, definendo chiaramente gli obblighi a cui sono chiamati per la cura dei soggetti e la garanzia del diritto allo studio, una diversa politica scolastica.
La scuola va messa in grado di presidiare la complessità della sua funzione modificandone le condizioni strutturali e pedagogiche: meno alunni per istituto e meno alunni per classe; garantire il tempo pieno su tutto il territorio nazionale (che non va confuso con l’apertura della scuola al territorio con attività pomeridiane); estendere l’obbligo scolastico e riformare gli ordinamenti, superare il precariato e aumentare gli organici; dotare gli insegnanti di un contratto di lavoro dignitoso. Soprattutto va rivisto il fare scuola per garantire al Paese la formazione di cittadini in grado di esprimere pensiero libero, capacità critica, coscienza di sé e del mondo; l’acquisizione di competenze per individuare i problemi del proprio tempo, accanto allo sviluppo di responsabilità e di un’etica pubblica per contribuire a risolverli in un contesto solidale.
Serve un ripensamento profondo della formazione iniziale e in servizio degli insegnanti, delle modalità di reclutamento, affinchè l’insegnamento possa focalizzarsi sul processo individuale di apprendimento per il successo formativo di ciascuno, sulla rimozione dei luoghi comuni regressivi che sono entrati nella cultura del Paese, sulla sperimentazione di una progettazione didattica capace di tenere insieme: soggetti, saperi, teoria e pratica, le esperienze scolastiche e quelle vissute nel contesto di vita, dalla famiglia al territorio.
Porre al centro del lavoro le interdipendenze dando spazio e valore al gruppo, alla didattica della ricerca e laboratoriale, a una valutazione formativa libera dal voto. Ciò non significa svuotare il compito formativo della scuola e delle discipline, ma porre al centro l’emancipazione dei soggetti e non i saperi in sé. Senza una formazione adeguata al mestiere, si corre il rischio che le misure previste dal Pnrr per ridurre abbandoni e dispersione resteranno per lo più a valle del problema e non sarà colta pienamente la possibilità di collaborare con nuove professionalità e dialogare con il territorio.
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