Scuola e pandemia: un rischio o un’occasione perduta?
I numeri dell’epidemia da Covid 19, in crescita rapida, non aiutano a leggere la realtà. Sebbene ci avviciniamo ad avere un numero di malati quattro volte superiore a quello del primo picco del 19 aprile, i ricoveri, che all’inizio di aprile superavano i 33.000 ordinari e i 4.000 in terapia intensiva, ad oggi sono di meno grazie alla nostra maggior preparazione. Tuttavia, il virus non è cambiato: i casi gravi sono ancora molti, e la crescita dei numeri fa sì che non si riescano più a tracciare tutti i contatti. In questo contesto, sono in molti a chiedersi se sia opportuno o meno mantenere aperte le scuole. Già da domani, in tutta Italia le superiori chiuderanno, per svolgere la didattica a distanza. Nelle zone rosse, inoltre, potranno frequentare solo i bambini della scuola dell’infanzia, della primaria e della prima media.
La scorsa primavera abbiamo dovuto giocoforza ricorrere al lockdown, secondo il principio per cui “se ogni italiano fosse separato dagli tutti gli altri per 14 giorni, la malattia finirebbe subito”. Tralasciando il fatto che questa affermazione è sbagliata (perché i coronavirus hanno moltissimi ospiti animali e perché ci sono evidenze di portatori umani su periodi molto più lunghi), è il caso di ricordarci che questo provvedimento ha un prezzo altissimo in termini economici, di salute, tenuta sociale, terreno concesso alla criminalità organizzata, marginalità e solitudine delle fasce più fragili della popolazione. Per evitare di giocare all’infinito questa carta serve quindi molta flessibilità e rapidità, sia nei servizi sanitari sia nei comportamenti sociali, per rispondere all’andamento della curva epidemica; e lavorare sul territorio per bloccare sul nascere dei focolai.
In quest’ottica un grande passo in avanti potrebbe venire dalla scuola. Innanzitutto è significativo che, in molti Paesi che hanno nuovamente imposto misure restrittive, la scuola sia questa volta rimasta l’unica o quasi ad essere aperta. Questo anche perché non ci sono evidenze che le chiusure portino benefici sulla curva dei contagi: anzi, da più parti è sottolineato il rischio che bimbi e adolescenti siano per forza affidati a nonni o parenti anziani, aumentando l’esposizione dei soggetti più fragili. I più grandi poi, in assenza di un luogo di aggregazione regolamentato come la scuola, non fanno che moltiplicare le occasioni di contatti a maggio rischio.
Inoltre, anche per la sanità pubblica, la chiusura della scuola è un’opportunità perduta: il test and tracing ha bisogno di essere rivisto, e la scuola rappresenta un modello ideale per applicare questa revisione.
Ci si lamenta che l’Italia sia in preda all’analfabetismo funzionale, che siano diffusi incapacità di pensiero critico, mancanza di senso civico, rissosità da leoni da tastiera: risolvere questi problemi aiuterebbe ad affrontare questa epidemia – sia sul fronte dei comportamenti responsabili del singolo, sia sul fronte della coesione sociale. Senza contare che non è certo una novità che, in contesti di scarsa istruzione e di disagio sociale ed economico, anche l’incidenza di numerose patologie è più alta.
Stiamo insomma parlando di una formazione “integrale” della persona che non si fa dall’oggi al domani, e che l’educazione scolastica – educazione, non solo istruzione, intesa come apprendimento di nozioni – ha ruolo centrale e agisce in maniera complementare e collaborativa alla famiglia. Non c’è educazione domestica che funzioni fino in fondo senza quella di comunità, né viceversa. Se vogliamo uscire non tanto da questa pandemia (che si spera sarà finita in tempi più brevi di quelli di un ciclo di studi), ma da quell’ipoteca che sembra pendere sul nostro futuro, dobbiamo partire dal far sentire anche ai più piccoli che quel loro (a volte svogliato) andare a scuola è importante, per tutti. Che noi che a scuola già ci siamo andati ci teniamo. Che i loro studi non sono un qualcosa che se si può fare si fa, sennò pazienza, il mondo va avanti lo stesso. Perché domani non andrà avanti, se loro avranno fatto solo didattica a distanza (e i più piccoli neanche quella).
Riteniamo quindi importantissimo il segnale dato dai nostri vicini come Francia e Germania, che hanno tenuto le scuole aperte in presenza. E sentir dire da epidemiologi e politici che chiuderle è una necessità non tanto per l’esplosione di contagi al loro interno, quanto per l’impossibilità di mettere in sicurezza il trasporto pubblico, o di svolgere un adeguato lavoro di diagnosi e tracciamento, è una sconfitta del Paese che pagano i ragazzi.