Scrivo per diventare più uomo
Fulvio Tomizza a dieci anni dalla scomparsa. Attualità di un autore che non si è mai rassegnato ai confini che dividono.
Fulvio Tomizza è passato da questa alla “miglior vita” (per dirla col titolo di un suo capolavoro) dieci anni or sono, dopo una malattia vissuta con serena dignità. Figlio di una terra mistilingue, con antenati venuti dalla Dalmazia, raggiungeva quella patria di tutti indistintamente, a cui la sua anima inquieta di esule, diviso tra la natia Istria e la città di adozione, Trieste, aveva anelato per tutta la vita.
Del proprio sofferto “destino di frontiera”, della sua duplice anima di italiano e slavo, di uomo della terra e della città, l’autore di Materada ha fatto il trampolino per spaziare oltre le angustie di confine, oltre i nazionalismi, i rancori, le incomunicabilità tra mondi diversi, per dire una parola di comprensione e di conciliazione: e questo prima ancora che si parlasse di Europa unita.
L’Istria è stata il suo punto di riferimento, la sua stella polare, anche se non era più la stessa dei giovani anni. Dopo un inverno triestino trascorso a documentarsi in vista di un nuovo libro, da maggio a ottobre ritornava in quella terra che gli aveva ispirato i primi romanzi rivelatori del suo talento di scrittore mitteleuropeo. Era per riprendere familiarità con la natura, per impregnarsi degli umori e delle voci della sua gente contadina: alternando alle fatiche dell’orto quelle della composizione letteraria; scambiando fraterni colloqui in dialetto con gli italiani rimasti sul posto, ma anche con i nipoti dei nuovi abitanti slavi.
Suo rifugio era il casolare che aveva ristrutturato nella campagna di Materada. E lì, in una stanzetta più simile alle cella di un convento, estraniato da tutto, passava ore al suo tavolo da lavoro: qualunque fosse l’argomento – un episodio che rimandava agli anni del doloroso esodo oppure una vicenda risalente ad un più remoto passato ma da lui vivificata e riconsegnata all’oggi –, vi si dedicava con la stessa sacralità di un prete che s’accosta all’altare.
«Quando vado in Istria – soleva dire – mi sento nel mio habitat, nella condizione fisica, sentimentale, ideologica ideale: sono una persona di nuovo integra, innocente. Lì trovo non soltanto la pace della campagna, ma soprattutto una purezza di spirito, una pulizia morale. Lontano dagli interessi, dagli inquinamenti, dai giochi letterari, dal do ut des che regna nel mondo civile, riacquisto anche una certa umiltà che è connaturata con quei luoghi».
Scrivere era per lui un dovere, una missione che lo migliorava, lo faceva diventare più uomo. «Quando scrivo, mi sento più giusto di come sono (se lo sono) nella realtà, più onesto e più severo con me stesso. E quindi con un’obiettività estrema, con la mancanza di qualsiasi altro interesse – anche ideologico, anche sentimentale: soltanto con l’obiettivo di dire la verità, e quindi di rendere giustizia a quelli che sono stati vittime di metodi e azioni interessate».
Scriveva anche per «avvicinarsi all’eternità», quasi fosse il suo modo di pregare. Profondamente legato alle tradizioni cristiane che erano state l’elemento coagulante della sua gente, e con la Bibbia sempre a portata di mano, si considerava tuttavia l’«uomo del dubbio» riguardo alla fede in un’entità superiore; toccato invece fino alla commozione dalle «manifestazioni di tenerezza, innocenza e grazia da parte dei miei simili come pure degli animali», in cui riconosceva una scintilla di divino.
Scriveva dalla mattina fino al tramonto del sole con l’intervallo del pranzo e la consueta passeggiata pomeridiana nei boschi e nei dintorni.
Ogni tanto dai fogli coperti di una calligrafia quasi indecifrabile (almeno nella prima stesura) alzava lo sguardo verso la finestra spalancata sulla campagna, dove tra gli ulivi intravedeva un lembo di Adriatico. Bastava lo sfrecciare di un uccello o una vela tremolante all’orizzonte a dargli il senso del contatto con le altre creature viventi, facendolo sentire parte di una umanità per la quale aveva senso il frutto della sua fatica.
In famiglia non parlava mai del suo lavoro: assoluta segretezza con chiunque, perfino con l’amata Laura. Per una sorta di pudore? Per non essere invadente? Tutto l’opposto di certi geni della letteratura che hanno monopolizzato i familiari, e in modo speciale le mogli, al tempo stesso loro adoratrici e indefesse segretarie.
Col tempo, sviluppandosi una vena onirica, la sua prosa acquisiva sempre più un afflato poetico. Poesia scabra come le bianche pietre d’Istria a cui si abbarbicano i pini, poesia di uomini e donne umili custodi di valori universali e perenni.
Tomizza aveva conosciuto i Focolari nel 1955 tramite il fratello Nerio. L’anno successivo, durante una Mariapoli a Fiera di Primiero, era rimasto impressionato dalla purezza degli occhi di Chiara Lubich: non li avrebbe più dimenticati. Poi la sua missione di scrittore, totalizzante come ogni vocazione, l’aveva assorbito; ma da quel contatto con una comunità vitale la sua anima preparata al messaggio della fraternità della famiglia umana aveva ricevuto un timbro indelebile. E del resto, tutta la sua opera appare ispirata all’amore per l’uomo, all’abbraccio degli umili e dei diversi, alla necessità di arrivare ad una pacifica convivenza tra popoli.
Schivo dei circoli letterari, ma non di amicizie con altri colleghi, che coltivava però più che altro epistolarmente, era l’antitesi dello scrittore narcisista che sa offrire al suo pubblico esattamente quello che si aspetta. Lui no, andava avanti per la sua strada; e se alcune sue storie, per la scelta del soggetto, possono apparire lontane dagli interessi dell’oggi (come quando attinge ad una cronaca del Seicento per descrivere i casi di una finta visionaria, o quando si appassiona alle vicende tumultuose del vescovo apostata Vergerio), esse costituiscono ogni volta un affondo nell’anima dell’uomo di sempre, tale da mettere il lettore di fronte a sé stesso, alle proprie scelte civili e morali.
Era un generoso incapace di dire di no a chi si rivolgeva a lui, come se si sentisse sempre in debito verso gli altri. Dare era la sua gioia. Gli occhi gli brillavano quando tornava a casa raccontando che aveva potuto aiutare qualcuno.
Fuori appariva come un uomo semplice, scherzoso, mite (qualche sfogo violento si placava subito, come un temporale d’estate). Contemporaneamente la sua acuta percezione degli altri e di sé stesso, con i limiti che appesantiscono e gli slanci dell’anima che elevano, ne facevano un uomo tormentato. Pessimista, ma non disperato.
Negli ultimi anni, nel pieno di una crisi esistenziale cui non era estranea la malattia subdola che lo avrebbe portato alla morte, era arrivato a pensare al suicidio. È stato quando gli è sembrato di essere scrittore superato, che non aveva più nulla da dire nel mutare dei tempi e l’avvicendarsi delle generazioni. Che senso aveva allora la sua fatica, il suo dono, se non c’era chi era disposto a riceverlo?
L’isolamento a lui caro deve essere stato allora percepito come una prigione senza scampo. Ma anche stavolta scrivere gli è valso da medicina. Esiste un testo bellissimo ma terribile, che testimonia questa intensa sofferenza: è I rapporti colpevoli, che lo ha mantenuto a lungo esitante sull’opportunità di una pubblicazione.
A dieci anni dalla morte, Trieste ha appena reso omaggio a Tomizza con una mostra documentaria ricca di foto, manoscritti, oggetti appartenuti allo scrittore: vi era perfino ricostruita con i suoi semplici arredi la camera di Materada dove egli ha scritto la maggior parte dei suoi romanzi.
In occasione del decennale, ha pure visto la luce l’ultima opera curata in vita da Tomizza, Le mie estati letterarie: una raccolta di saggi e racconti dove ritroviamo, assieme ai temi prediletti, la sua voce di sempre, venata di malinconia, ma col calore di chi scambia confidenze accanto al fuoco assaporando un bicchiere di buon vino.
____________________________________________________________
FULVIO TOMIZZA nasce a Giurizzani di Materada nel 1935, figlio di piccoli proprietari agricoli. Dopo la maturità classica si trasferisce a Belgrado e a Lubiana, dove inizia a lavorare occupandosi di teatro e di cinema. Nel 1955, quando l’Istria passa sotto la Jugoslavia, sceglie come propria sede Trieste, dove rimane fino alla morte nel 1999.
Pubblica una ventina tra romanzi e raccolte di racconti e di saggi. Alla famosa Trilogia istriana fanno seguito opere a sfondo più autobiografico. Notevole il suo contributo alla storiografia dato con alcuni romanzi ispirati a fatti trascurati della storia. Numerosi i premi, tra cui il Viareggio, nel 1969, per L’albero dei sogni, e lo Strega e quello del Governo austriaco per la letteratura europea, nel 1979, per La miglior vita. Postumo e di recente pubblicazione, per i tipi di Marsilio, è Le mie estati letterarie. Lungo le tracce della memoria.