Scout 100 di questi anni!
C’era una volta, cento anni fa… La storia avrebbe quasi il sapore della leggenda se non fosse, come è, vera. 1° agosto 1907. Sull’isola di Brownsea, una ventina di ragazzi messi insieme da un ufficiale dell’esercito inglese, certo sir Baden Powell, realizza una sorta di esperimento: stare insieme per una settimana a provare se funziona un metodo educativo che trae ispirazione dallo scoutismo militare, ma ha come scopo di insegnare come si fa la pace anziché la guerra. Bene, se dopo 100 anni di questi campi se ne fanno ancora a migliaia, è molto probabile che l’esperimento abbia funzionato. E, stando alle cifre, ha avuto anche un gran successo. Saranno 40 milioni nel mondo gli scout che il 1° agosto 2007 celebreranno nei modi più diversi e nei posti più disparati, l’ alba del centenario, che avrà come punto centrale e comune il rinnovo della promessa. Lo faranno quelli che scout lo sono ancora, come quelli che non lo sono più. Perché scout si rimane dentro, sembra. E non si fa fatica a credere che sia così quando si è fatta sin da piccoli un’esperienza formativa importante. La maggior parte degli scout, infatti, cominciano da piccoli. Per loro esiste la branca, anzi il Branco, pardon, dei lupetti e delle coccinelle che accoglie bambini dagli 8 agli 11 anni. Qui iniziano a conoscere e a vivere, attraverso il gioco, la proposta scout. I lupetti hanno come motto: Del nostro meglio; le coccinelle: Eccomi. Dai 12 ai 16 anni, poi, lasciano il Branco e passano al Reparto, composto da tre-quattro squadriglie di 7-8 ragazzi e prendono il nome di esploratori e guide. Il loro motto è: Sii preparato, ad indicare la disponibilità ad aiutare sempre gli altri. In questa fase è importante la vita di queste piccole unità che progettano in modo autonomo le loro attività. Fra i 16 e i 21 anni, infine, passano alla Comunità rover e scolte dove sperimentano soprattutto la dimensione del servizio, vissuto come il vero modo per essere felici. Servire è, infatti, il loro motto. A questo punto possono decidere se partire dagli scout, oppure continuare l’esperienza impegnandosi nella Comunità capi, cioè gli educatori dei ragazzi più piccoli. Ci sono anche quelli che si avvicinano da grandi allo scoutismo. Fanno parte del Masci (Movimento adulti scout cattolici italiani). Come Alberto di Novi Ligure, 69 anni, affascinato dall’idea di camminare assieme e non appartati nei propri appartamenti, o Giacinto Bona, segretario nazionale del movimento che ha fatto la promessa scout a 37 anni. Un metodo educativo, quello inventato da Baden Powell che ha dei punti ben precisi: la formazione del carattere, l’abilità manuale, la salute e la forza fisica, il servizio del prossimo. Un metodo basato sul protagonismo dei ragazzi cui gli adulti si affiancano quasi… in punta di piedi, per favorirne la crescita a suon di fiducia e di testimonianza personale. Un’esperienza che punta tanto alla vita comunitaria, all’attenzione al territorio, al contatto con la natura, alla dimensione della fraternità internazionale, all’apertura a ragazzi di altre confessioni cristiane o di altre religioni, come di non credenti. E poi l’aspetto fondamentale della cittadinanza vissuta come impegno ad essere attivi nel proprio angolo di mondo, a darsi da fare dove esistono situazioni di marginalità e di sfruttamento, dove ci sono da tutelare i diritti dell’infanzia, da promuovere il rispetto della natura e l’equa distribuzione delle risorse, da intervenire su tematiche educative e politiche giovanili. In una sintesi tra fede e vita che mantenga alta la proposta. Si capisce perché mamme e papà continuino a iscrivere i propri figli tra gli scout anche quando c’è da mettersi in lista d’attesa (perché a scarseggiare spesso sono i capi scout, quegli adulti che non sempre sono sufficienti per accogliere le nuove leve). Se pensiamo che le nuove generazioni hanno il pollice veloce da telefonino o play station, i ge-nitori autisti della palestra, dell’inglese, della danza…, mamme che rifanno il letto e portano lo zaino della scuola, non è mica male imparare da piccoli ad autogestirsi, ad uscire dalla propria stanzetta e scorazzare in un bosco, a non pensare solo a sé stessi. Insomma qualche comodità in meno, purché tutto diventi stile di vita e non solo di campo. Ma più è autentica l’esperienza, più diventa pratica di tutti i giorni. Lo testimoniano tanti rimasti scout a vita. Come il dottor Ennio Biagiotti classe 1907, l’ esploratore più anziano, che ricorda gli anni difficili dello scioglimento durante il fascismo e la sopravvivenza dello scoutismo in clandestinità. O altri che hanno già compiuto il loro di- segno. Come don Tar, che aveva pronunciato la promessa a 10 anni, nel 1916, e che è rimasto fino alla fine al servizio degli scout. Don Tar è il modo affettuoso col quale veniva chiamato don Tarciso Beltrame Quattrocchi, figlio di Luigi e Maria, la prima coppia proclamata beata nella storia della Chiesa. Di lui resta un mare di ricordi e una quantità notevole di scritti. Gli affidiamo di chiudere queste righe con un suo brano proprio sul saluto scout: Il nostro saluto non è semplicemente un segno convenzionale di riconoscimento e con il simbolo del pollice piegato sul mignolo non vuole solamente ricordarci il dovere di proteggere chi è più debole, ma ha un significato ancora più profondo. Quando incontro una guida o uno scout e li saluto in quel modo, non solo mi faccio riconoscere come un fratello, ma con quel gesto che ricorda la mia e la sua promessa inviinvito loro e me ad una rapidissima riflessione: a pensare, cioè, se e quanto loro ed io la stiamo vivendo , se e quanto ci stiamo sforzando di mantenerla facendo del nostro meglio. Un mondo, una promessa.Non a caso è questo il motto scelto per il centenario. Che è pieno di iniziative degne di un secolo di vita. Basta guardare il sito www.agesci.org. GLI INIZI Nel racconto di Baden Powell. Durante l’assedio di Mafeking, Lord Edward Cecil – il mio capo di stato maggiore – aveva avuto l’idea di impiegare i ragazzi della città come staffette, porta ordini, ordinanze… Essi erano stati organizzati in un corpo speciale posto sotto il comando di uno di loro, e avevano assolto i loro doveri in maniera perfetta dando sovente prova, anche sotto il fuoco nemico, del più grande coraggio. La coscienza che mettevano nel compiere il loro dovere dimostrava che ci si poteva fidare di loro come se fossero stati degli uomini fatti, a condizione però di avere fiducia in loro e di renderli responsabili del loro compito. Ciò costituì per me un grande insegnamento. È da questo episodio che a Baden Powell è balenata l’idea di quello che sarebbe poi diventato lo scoutismo. Osservando che i giovani si sottomettono volentieri a un programma e a una disciplina, quando questo programma e questa disciplina hanno per loro un’attrattiva e vedendo che anche centinaia di adulti erano pronti a dedicare il loro tempo e le loro forze al servizio di una tale opera, fece una riflessione: Se a questi ragazzi si fosse offerto un programma sufficientemente vario e allettante, il numero di quelli coinvolti sarebbe ben presto cresciuto di molto. Lo scopo di questo scoutismo poteva benissimo essere la pace invece che la guerra, poiché le qualità a cui mirava – fermezza di carattere, salute, virilità – erano necessarie tanto al cittadino quanto al soldato. Così, per vedere se la cosa funzionava, pensò di organizzare un campo in un luogo adatto, lontano dal pubblico, lontano dai giornalisti, e dove mi potessi dedicare con tutta la tranquillità al necessario esperimento. E poiché la signora Van Realte aveva messo a mia disposizione la sua isola di Brownsea, nella baia di Poole Harbour, io vi riunii un gruppo di ragazzi di tutte le classi sociali e di tutti gli ambienti. Solo allora e, visto che il risultato aveva pienamente corrisposto all’attesa, pubblicai Giovani esploratori (Scouting for boys). L’intero piano si fondava sul principio di un gioco educativo, di un divertimento che insensibilmente conducesse il fanciullo a istruirsi da sé. Ma come chiamare questo movimento? La denominazione aveva in questo caso la più grande importanza: se noi avessimo dato il nome di Società per la propaganda delle qualità morali (ciò che era in realtà), avremmo avuto ben poche probabilità di vederlo attirare i giovani. Ma chiamarlo scoutismo e proporre al bisogno d’azione di un ragazzo normale la prospettiva di diventare qualcosa di simile a un esploratore significava una cosa assai diversa. Il suo istinto di vivere in banda sarebbe stato soddisfatto col farlo diventare membro di un Riparto e di una Squadriglia; che gli si desse poi una uniforme da indossare e dei distintivi da guadagnare dimostrando i progressi realizzati mediante i suoi sforzi personali, e il ragazzo era conquistato. Un mondo, una promessa Intervista con Chiara Sapigni, presidente della Federazione italiana scout. Gli scout sono la più grande realtà associativa giovanile mondiale. Come si spiega questo successo? Sicuramente è un metodo che parla ai ragazzi, che li coinvolge direttamente, dà loro spazio; e questo fa sì che aumenti la richiesta di iscriversi. Speriamo che questo centenario aiuti da un lato a consolidare i gruppi esistenti, e dall’altro a farne nascere di nuovi, anche se sappiamo che la risorsa più rara oggi sono gli adulti disponibili a dedicarsi ai più giovani. Oggi si parla di emergenza educativa. Voi come la fronteggiate? Baden Powell agli inizi aveva pensato allo scoutismo come una possibilità di togliere i ragazzi dalla strada, e questo era un problema serio ai primi anni del Novecento. Oggi ve ne sono altri, ma l’obiettivo rimane quello di avere al centro la globalità della persona. Le ragazze e i ragazzi hanno delle potenzialità che bisogna scoprire e far scoprire a loro stessi. Ed è importante che si pongano giorno per giorno delle mete, degli impegni progressivi che aiutino a crescere, sviluppando delle capacità per affrontare la vita di tutti i giorni con uno stile attento e responsabile. Una sorta di palestra…. Non dimentichiamo che alla base di tutto c’è la promessa scout. Quanto è serio questo impegno? Anche questa è un’originalità particolare del metodo scout, perché ad un’età piuttosto bassa, intorno ai 12-13 anni, ai ragazzi che hanno condiviso un po’ l’esperienza e hanno capito di cosa stiamo parlando, viene fatto l’invito a impegnarsi di fronte alla comunità per un costante miglioramento. Con la promessa non si chiede un minimo sindacale, uguale per tutti, si chiede ad ognuno di fare il massimo. Con questo spirito la promessa non è mai vecchia, si rinnova costantemente perché la persona cresce e quindi cambia il proprio meglio, anzi diventa sempre più impegnativo. Lei è presidente della Fis che comprende gli scout cattolici (Agesci) e quelli che non hanno fatto una scelta confessionale (Cngei). Ci sono poi scout ebrei e musulmani. Dunque si tratta di una proposta ad ampio raggio… Assolutamente. Sin dall’inizio per il fondatore la dimensione religiosa era molto legata al senso della vita. Ci sono moltissimi scritti di Baden Powell che dicono quanto la nostra vita, attraverso lo scoutismo, sia orientata a portare a termine il progetto di Dio su di noi. In realtà quest’esperienza è talmente variegata che è riuscita ad adattarsi a tantissime realtà sociali e religiose in differenti contesti. Quanto è importante collaborare con altre realtà per dare risposte efficaci alle domande dei giovani d’oggi? È un’attenzione che come associazione dobbiamo sviluppare. Noi siamo sempre un po’ guardati come quelli che hanno l’uniforme, che vanno per strada con gli zaini…, elementi che ci possono da un lato connotare, ma dall’altro anche isolare. C’è una tensione costante nelle associazioni ma anche nei gruppi locali a rimanere in contatto con gli altri. D’altra parte per noi è prioritaria l’educazione. Sappiamo quanto bisogno ci sia oggi in Italia di investire su una prospettiva di valori, di senso, per i nostri giovani anche lavorando insieme alle istituzioni. Noi collaboriamo con diversi ministeri, dalla Pubblica istruzione, all’Ambiente, alle Politiche giovanili, perché si facciano carico di una serie di attenzioni che sostengano il protagonismo dei ragazzi. Dopo 100 anni cosa si vede guardando in prospettiva? Da un lato l’importanza di essere vicini alla tradizione per non snaturare l’intuizione originaria, dall’altro l’impegno a renderla attuale oggi, perché altrimenti rischia di diventare anacronistica. LA PROMESSA Con l’aiuto di Dio, prometto sul mio onore di fare del mio meglio: per compiere il mio dovere verso Dio e verso il mio Paese; per aiutare gli altri in ogni circostanza; per osservare le legge scout. …E LA LEGGE La guida e lo scout: pongono il loro onore nel meritare fiducia; sono leali; si rendono utili ed aiutano gli altri; sono amici di tutti e fratelli di ogni altra guida e scout; sono cortesi; amano e rispettano la natura; sanno obbedire sorridono e cantano anche nelle difficoltà; sono laboriosi ed economi; sono puri di pensieri, parole e azioni.