Scorci di vita quotidiana: dove nasce la poesia
Alcune domande al dott. Ignacio Piñero, autore della raccolta di poesie Sophiana, pubblicata su «Nuova Umanità» XXXII (2010/3) 189
Sophiana, come mai ha scelto questo titolo e che significato ha?
È stato un suggerimento del prof. Antonio Maria Baggio e mi è sembrato giusto, vista l’esperienza che stiamo facendo come famiglia: studiamo infatti nell’Istituto Universitario Sophia; qui si cerca di scoprire o svelare il sapere sapienziale attraverso una comunanza di vita e di studio, essendo pronti a accogliere l’altro e a donare quello che sono e che ho come conoscenza.
Sebbene alcune delle poesie le abbia scritte in questo periodo, altre hanno quasi 10 anni.
È interessante che le più antiche risalgono ad un viaggio che ho fatto tanti anni fa con due amici e che cominciò nello stesso posto dove abitiamo adesso con mia moglie e mia figlia: a Loppiano. Qualcun’altra l’ho scritta in Germania durante un’esperienza simile a quella che sto facendo ora: la Summer School dell’Istituto Superiore di Cultura, primo annuncio dell’attuale università.
Una volta ho sentito che la vera poesia è filosofia; penso anche che la vera poesia può portare sapienza e per questo il metodo dell’IUS è geniale per chi cerca di vivere la poesia. Donando il più profondo, il più intimo nell’incontro con l’altro, può venire fuori una cosa nuova, magari un barlume di sapienza.
In questo senso il titolo è troppo grande per le mie poesie.
Da dove proviene l’ispirazione della sua Apologia secondo il figlio?
È stato un suggerimento del prof. Antonio Maria Baggio e mi è sembrato giusto, vista l’esperienza che stiamo facendo come famiglia: studiamo infatti nell’Istituto Universitario Sophia; qui si cerca di scoprire o svelare il sapere sapienziale attraverso una comunanza di vita e di studio, essendo pronti a accogliere l’altro e a donare quello che sono e che ho come conoscenza.
Sebbene alcune delle poesie le abbia scritte in questo periodo, altre hanno quasi 10 anni.
È interessante che le più antiche risalgono ad un viaggio che ho fatto tanti anni fa con due amici e che cominciò nello stesso posto dove abitiamo adesso con mia moglie e mia figlia: a Loppiano. Qualcun’altra l’ho scritta in Germania durante un’esperienza simile a quella che sto facendo ora: la Summer School dell’Istituto Superiore di Cultura, primo annuncio dell’attuale università.
Una volta ho sentito che la vera poesia è filosofia; penso anche che la vera poesia può portare sapienza e per questo il metodo dell’IUS è geniale per chi cerca di vivere la poesia. Donando il più profondo, il più intimo nell’incontro con l’altro, può venire fuori una cosa nuova, magari un barlume di sapienza.
In questo senso il titolo è troppo grande per le mie poesie.
Da dove proviene l’ispirazione della sua Apologia secondo il figlio?
È stata la mia prima esperienza di ricerca della sapienza con la metodologia di Sophia.
In una lezione il professore ci ha presentato L’Apologia di Socrate in un modo molto profondo ed io ho semplicemente cercato di ascoltarlo fino in fondo; in un momento del giudizio, Socrate racconta di non aver portato i suoi figli non avendo intenzione di commuovere nessuno: lì mi si è presentata l’immagine dei suoi figli nascosti tra la gente, che sicuramente avranno avuto qualche parola da dire, ma ho cercato di tacere l’idea e continuare ad ascoltare.
A fine lezione, con i colleghi, ci rendevamo conto che era stato proprio un momento speciale… e così alla sera, a casa, è venuta fuori questa poesia, di getto.
Il suo sentire poetico è stato influenzato dall’esperienza della paternità?
La paternità è un regalo che non avrei mai immaginato così bello. Certamente è anche sconvolgente e ci vuole un tempo per sapersi muovere nella nuova situazione, ci vuole un po’ di silenzio per imparare le nuove parole. È bellissimo.
La sua musa: sua moglie Rocío che «lasciò scappare il barlume /di poesia/ che le mie viscere incarceravano»… vuole accennarci qualcosa della scelta che avete fatto in questi due anni di lasciare l’Argentina per venire, sposi novelli, a studiare a Sophia?
Con Rocío siamo insieme da 14 anni, quasi 4 da sposati e abbiamo avuto tanti momenti importanti di crescita (a livello di coppia, personale, intellettuale, spirituale, ecc), ma questi 2 anni sono stati fondamentali. Prendere la decisione di venire non è stato facile perché dovevamo lasciare tante cose, le nostre piccole o grandi certezze, ma avevamo l’intuizione che il progetto accademico e umano di Sophia fosse grande, così abbiamo deciso di scommettere tutto e ne è valsa la pena. Poi Sophia è stata proprio la nostra famiglia e la nostra casa.
Di Rocío posso dire che è la mia musa e in questi due anni, in cui abbiamo condiviso forse più tempo che in tanti altri, mi sono innamorato molto di più, e qui abbiamo anche cominciato la nostra avventura come genitori.
Nella poesia Dachau, dietro al dolore che trasuda ancora dalle pareti di quel campo di concentramento, lei sente perdurare «il canto/di quelli che continuarono amando/nell’inferno»: bellissima immagine di speranza in un luogo, apparentemente, di sola disperazione: c’è qualcosa in particolare che ha suscitato questo pensiero?
Mi ricordo ch’era un giorno di -20ºC, tutto era bianco e ci raccontavano come vivevano nel campo di concentramento, era tristissimo e mi è venuta l’immagine che anche in quell’inferno si poteva fare un piccolo gesto immensamente eroico, immensamente umano, un piccolo o enorme atto d’amore: l’uomo può farlo. Se non fosse così i tanti “inferni” che ci sono in questa terra non sarebbero redimibili, ed io penso invece che lo siano; ci vogliono degli uomini “eroici” come quelli di Dachau.
L’altro è la poesia conclusiva, ma in realtà, con sfumature diverse, l’altro sembra centrale in tutto il suo sentire e comporre; forse proprio il rapporto con l’altro è alla base di quello che per lei è fare poesia?
Per me l’altro è quello che mi ammazza e mi redime, in tutta la mia vita, ed io desidero che la mia poesia sia vita vissuta: perciò l’unica via che vedo possibile è farla, viverla, piangerla e cantarla con l’altro.
In una lezione il professore ci ha presentato L’Apologia di Socrate in un modo molto profondo ed io ho semplicemente cercato di ascoltarlo fino in fondo; in un momento del giudizio, Socrate racconta di non aver portato i suoi figli non avendo intenzione di commuovere nessuno: lì mi si è presentata l’immagine dei suoi figli nascosti tra la gente, che sicuramente avranno avuto qualche parola da dire, ma ho cercato di tacere l’idea e continuare ad ascoltare.
A fine lezione, con i colleghi, ci rendevamo conto che era stato proprio un momento speciale… e così alla sera, a casa, è venuta fuori questa poesia, di getto.
Il suo sentire poetico è stato influenzato dall’esperienza della paternità?
La paternità è un regalo che non avrei mai immaginato così bello. Certamente è anche sconvolgente e ci vuole un tempo per sapersi muovere nella nuova situazione, ci vuole un po’ di silenzio per imparare le nuove parole. È bellissimo.
La sua musa: sua moglie Rocío che «lasciò scappare il barlume /di poesia/ che le mie viscere incarceravano»… vuole accennarci qualcosa della scelta che avete fatto in questi due anni di lasciare l’Argentina per venire, sposi novelli, a studiare a Sophia?
Con Rocío siamo insieme da 14 anni, quasi 4 da sposati e abbiamo avuto tanti momenti importanti di crescita (a livello di coppia, personale, intellettuale, spirituale, ecc), ma questi 2 anni sono stati fondamentali. Prendere la decisione di venire non è stato facile perché dovevamo lasciare tante cose, le nostre piccole o grandi certezze, ma avevamo l’intuizione che il progetto accademico e umano di Sophia fosse grande, così abbiamo deciso di scommettere tutto e ne è valsa la pena. Poi Sophia è stata proprio la nostra famiglia e la nostra casa.
Di Rocío posso dire che è la mia musa e in questi due anni, in cui abbiamo condiviso forse più tempo che in tanti altri, mi sono innamorato molto di più, e qui abbiamo anche cominciato la nostra avventura come genitori.
Nella poesia Dachau, dietro al dolore che trasuda ancora dalle pareti di quel campo di concentramento, lei sente perdurare «il canto/di quelli che continuarono amando/nell’inferno»: bellissima immagine di speranza in un luogo, apparentemente, di sola disperazione: c’è qualcosa in particolare che ha suscitato questo pensiero?
Mi ricordo ch’era un giorno di -20ºC, tutto era bianco e ci raccontavano come vivevano nel campo di concentramento, era tristissimo e mi è venuta l’immagine che anche in quell’inferno si poteva fare un piccolo gesto immensamente eroico, immensamente umano, un piccolo o enorme atto d’amore: l’uomo può farlo. Se non fosse così i tanti “inferni” che ci sono in questa terra non sarebbero redimibili, ed io penso invece che lo siano; ci vogliono degli uomini “eroici” come quelli di Dachau.
L’altro è la poesia conclusiva, ma in realtà, con sfumature diverse, l’altro sembra centrale in tutto il suo sentire e comporre; forse proprio il rapporto con l’altro è alla base di quello che per lei è fare poesia?
Per me l’altro è quello che mi ammazza e mi redime, in tutta la mia vita, ed io desidero che la mia poesia sia vita vissuta: perciò l’unica via che vedo possibile è farla, viverla, piangerla e cantarla con l’altro.