Scompare Ratan Tata, icona dell’industria indiana
I Tata – come del resto i Godrej e i Birla e altri nuclei familiari di business – hanno creato prodotti, ma anche ricchezza e servizi sociali, e il loro nome non è noto solo in India. Anche in Italia è infatti, sempre più comune vedere sia modelli delle loro auto che concessionarie. A livello internazionale, alcuni anni fa, aveva fatto scalpore il tentativo – per altro riuscito – di rilevare la Jaguar. Per questo, anche se la scomparsa del grande industriale Ratan Tata è un evento che segna la storia dell’industria – e non solo – nel subcontinente indiano, la sua figura non può essere compresa e apprezzata appieno senza cogliere il contesto in cui è nata, si è formata ed ha avuto il successo che ha avuto.
Per comprendere la versatilità imprenditoriale di Ratan e della dinastia Tata in generale basta pensare che, dopo la morte, il corpo dell’industriale è stato portato nel parco che circonda il National Centre for the Performing Arts (Ncpa), a Nariman Point, la punta estrema della metropoli di Mumbai. Lì chi desiderava poteva dare un ultimo saluto all’industriale. Il centro accoglie un grande teatro dove si svolgono concerti, manifestazioni culturali, festival del cinema, ma anche altri ambienti per mostre e convegni di ogni tipo. E un luogo del genere, in una delle zone dove un metro quadro di terra costa, forse, più che a Londra o a New York o Tokyo, è stato concepito e realizzato dal predecessore di Ratan Tata, l’icona della famiglia per decenni, noto come “Jrd”, dalle iniziali dei suoi nomi. È stato quest’uomo – Jehangir Ratanji Dadabhai Tata (1904-1993) – che ha governato quello che era diventato un vero impero economico, che ha voluto che Ratan, rampollo della grande famiglia, prendesse il suo posto, due anni prima della sua morte. Il giovane imprenditore si era fatto le ossa non solo studiando, ma anche facendo la gavetta nelle varie industrie di famiglia. Certo, i Tata da decenni si occupano di industria automobilistica, ma prima ancora di metalmeccanica, di acciaierie e, poi, come detto, hanno prodotto e continuato a promuovere cultura, centri di ricerca sociale e finanziaria. Il tutto, spesso, reinvestendo parte di proventi sul territorio per promuovere il bene comune. La loro generazione era lontana dai cosiddetti parvenu che sono poi diventati loro concorrenti – in alcuni settori – a partire dagli anni Novanta e in tempi ancora più recenti: gli Ambani e gli Adani, tanto per fare dei nomi. Modi diversi di considerare l’industria e il business, ignorando quasi del tutto la crescita sociale del tessuto umano che li circonda. Dimensione mai ignorata dai Tata, soprattutto da Ratan.
II suo sogno era costruire un’auto mini, che si potesse sostituire agli scooter e ai motorini che affollavano il traffico delle metropoli come Mumbai, Delhi, Calcutta, Chennai, Bangalore e quelle in espansione come Pune, Hyderabad, Ahmedabad; mettendo a rischio la vita di chi li guida, soprattutto negli spostamenti verso i luoghi di lavoro nel traffico caotico delle metropoli indiane. E chi li usava lo faceva perché non poteva permettersi un’auto. Ratan Tata aveva il sogno di dotare la classe medio-bassa del Paese di una mini-auto, quasi una vespa protetta da una carrozzeria che potesse assicurare maggiore dignità ma anche prevenire morti inutili. La Nano, così si chiamava l’auto, costava solo centomila rupie (circa 1.400 euro) e, nei desideri dell’industriale, avrebbero dovuto permettersela in molti. Non solo: la fabbrica che avrebbe dovuto produrla venne collocata in una zona depressa, in modo da favorirne lo sviluppo. Il progetto non funzionò – almeno come era stato preventivato. E, dopo dieci anni, nel 2018, la produzione della mini-vettura uscì di scena. Restò ciò che Ratan Tata definì il suo sogno: Ratan ki sapna, in lingua indi.
Come scrive un giornalista, in uno fra le centinaia di articoli apparsi sulla stampa indiana – e non solo – appena si è sparsa la notizia della morte di Ratan, se si escludono un paio di controversie in cui è stato trascinato, quest’uomo non mai è stato toccato dagli scandali che oggi affliggono i magnati. In effetti, quando parlava, non pronunciava mai una parola fuori posto. Educato ma fermo, sempre puntuale e preciso. Non una parola senza scopo. Per molti, nel mondo d’oggi fatto di globalizzazione crudele, Ratan Tata è rimasto un mistero, un uomo a suo modo contro corrente. Viveva in una casa grande come il suo cuore – scrive un commentatore indiano – ma non imponente come, invece, appariva a livello morale e sociale la sua persona. In effetti, nessuno si sentiva troppo piccolo accanto a lui. Preferiva la semplicità e la solitudine allo sfarzo e al glamour di Mumbai, dove i magnati attirano le star del cinema come le calamite attirano gli spiccioli. Amava i cani, certo, ma anche gli uomini e le donne e per questo i media parlano della scomparsa di un grande magnate, ma anche di un filantropo.
In tal senso ho un ricordo personale. A fine anni Novanta, il personale Alitalia mi offrì un posto in business class per un volo Mumbai-Milano. Con questo mi venne dato anche un buono per attendere il momento dell’imbarco nella lounge di prima classe dell’aeroporto. Quella notte l’ambiente era strapieno, e fra le poche poltrone disponibili ne era rimasta una accanto a quella dove mi ero seduto. A un certo punto si avvicinò Ratan Tata chiedendo se poteva sedersi. Atto di grande gentilezza in India, dove normalmente se un posto è libero è possibile occuparlo senza un particolare protocollo preliminare. Ovviamente, si rese conto che lo avevo riconosciuto. Scambiammo qualche parola non di circostanza, ma di presentazione sincera e disinteressata. Il tutto come se quel vicino assolutamente imprevisto fosse un qualsiasi passeggero. Un saggio della qualità e della statura morale e umana della persona.
Ratan Tata lascia un grande vuoto. I suoi eredi nell’impero Tata non saranno più, almeno per ora, appartenenti alla famiglia storica. Si spera per il futuro. Qualche tentativo in passato ha già segnato un doloroso fallimento.