Sciare sì, ma come?

Il caso di una bambine di 6 anni lasciata sola in un rifugio dai genitori per poter andare a sciare solleva alcune domande su come vogliamo vivere questo sport e la montagna
Impianti sciistici a Bobbio, 18 gennaio 2025. ANSA/ ANDREA FASANI

La notizia è circolata su tutti i giornali: una bambina slovacca di 6 anni è stata lasciata sola in un rifugio sul Monte Elmo, in Alto Adige, mentre i genitori sciavano in autonomia. Genitori che, quando sono tornati al rifugio dove avevano “parcheggiato” la figlia, hanno naturalmente trovato insieme a lei ad attenderli i carabinieri, che hanno proceduto con una segnalazione all’autorità giudiziaria.

Una grave negligenza che non solo non può essere ridimensionata semplicemente in virtù del fatto che l’Italia è uno dei Paesi più rigidi in quanto a legislazione sull’abbandono di minori (non si può lasciare i figli da soli se non hanno almeno 14 anni, mentre in pressoché tutto il nord Europa questo limite è più basso o non è nemmeno stabilito per legge); ma che anche solleva in maniera più ampia la questione di come venga vissuto oggi lo sci in pista.

I carabinieri e gli addetti ai lavori hanno infatti dichiarato alle agenzie di stampa che non si tratta di un caso isolato, per quanto particolarmente eclatante: di bambini lasciati soli nei cosiddetti “snow park” senza supervisione, mentre i genitori sono a sciare o a fare qualche altra delle tante attività proposte in quelli che sono ormai dei veri e propri luna park della neve, se ne contano parecchi. «Si tratta di un fenomeno allarmante, che evidenzia una grave carenza di responsabilità genitoriale», ha sottolineato il maggiore Simone Carlini, comandante della compagnia carabinieri di San Candido. Un atteggiamento, secondo le forze dell’ordine, dovuto al voler mettere il proprio legittimo desiderio di svagarsi prima della sicurezza dei figli, invece di cercare una soluzione che possa conciliarli. Una messa al centro del proprio io che investe, di conseguenza, anche altri aspetti di questo sport.

In primo luogo il privilegiare la propria voglia di sciare sempre e comunque. Ormai al di sotto dei 1500 metri, e in alcuni luoghi anche oltre, ci si trova a sciare su lingue di (costosissima, sia in termini economici che ambientali) neve artificiale: ma tant’è, “io voglio sciare, e pazienza. E poi, mica vorrai desertificare queste valli, dove senza lo sci sarebbero tutti dei poveracci” (affermazione, peraltro, ampiamente criticata da diversi studi che hanno analizzato la reale redistribuzione dei redditi di queste attività, e le potenzialità di altre forme di economia per queste valli).

Non solo: i costi sempre più alti di skipass, attrezzatura e servizi (difficile ormai sulle Dolomiti, per quanto ci si sforzi, spendere meno di 200 euro al giorno a persona) hanno funzionato, come molti utenti dei social notano, da “selezione naturale”. A potersi permettere di sciare lì sono solo le persone facoltose, con il risultato che le piste si trasformano in passerelle di moda – l’abbigliamento tecnico è un settore sempre più vivace, nonché costoso e ambientalmente impattante salvo pochi e lodevoli tentativi di usare tessuti privi di Pfas e affini – e occasioni di ostentazione del lusso, tra un party esclusivo in rifugio, una sciata e un après ski, prima di risalire sul proprio rombante suv portato rigorosamente fino alla porta del rifugio per rientrare a farsi una spa in albergo.

Il tutto, magari, da parte di persone che si sono premurate di acquistare la tuta all’ultima moda, ma non di prendere seriamente lezioni di sci: come anche maestri di sci e addetti alla sicurezza da più parti segnalano, basta una giornata sulle piste per rendersi conto che gli incidenti dovuti a chi scia in modo maldestro, mettendo in pericolo sé stessi e gli altri, sono all’ordine del giorno (a Cavalese, ad esempio, costituiscono il 25% degli accessi in pronto soccorso).

Insomma, tutte questioni che, seppure in maniera molto diversa, interrogano tutti su come si intende vivere la montagna in senso lato e il proprio rapporto con lo sport e lo svago.

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