Scandaglio dell’anima
Il gesuita, collaboratore per vari decenni della rivista "La civiltà cattolica", ci ha lasciati a 93 anni nei giorni scorsi. Riproponiamo un'intervista fatta a lui nel 2009 per la rivista Città Nuova
«Sa, ho la bellezza di 89 anni sulle spalle» esordisce padre Ferdinando Castelli, divertendosi alla mia espressione di meraviglia. In effetti per la carica vitale e la fecondissina attività letteraria, questo gesuita di origini calabresi dimostra molto meno della sua età. L’incontro avviene nella sede romana della prestigiosa rivista La Civiltà Cattolica, a cui collabora da 38 anni.
Lei ha illustrato finora un centinaio di autori contemporanei che esprimono, ognuno a suo modo, una ricerca dell’Assoluto. Ha radici lontane questa preferenza per la letteratura? E a cosa si deve?
«I miei superiori in noviziato mi dicevano: lei ama troppo la poesia, la letteratura; forse la sua vocazione è un’altra… Per fortuna il mio padre e maestro dei novizi mi rassicurava: “Lei può essere un ottimo gesuita e al tempo stesso un ottimo letterato”. Io gesuita sono diventato. Se ottimo, non lo so. Come letterato, cerco di dare il mio meglio in questo campo per far comprendere come la letteratura, vista come scandaglio dell’anima, sia una ottima alleata dell’apologetica e, se ben compresa, possa portare alla verità, cioè a Gesù Cristo.
«Perché la mia frequentazione di scrittori e poeti? Vede, l’opera lettararia è una esplorazione – attraverso i suoi personaggi – dell’abisso dell’anima, quella dell’autore e anche la nostra. Sta qui, a mio parere, l’essenza della letteratura. Che non esclude l’importanza della forma, dello stile, ma non si ferma lì: va oltre ed esprime la misteriosa bellezza, la grandiosità dell’anima umana».
Due suoi volumi che hanno come sottotitolo “La letteratura moderna come ricerca dell’Assoluto”. Ma il titolo è enigmatico: “Nel grembo dell’Ignoto”.
«È un verso di Charles Baudelaire. Nella poesia Il viaggio questo poeta a me molto caro si scaglia contro coloro che esaltano il progresso e si affannano nella ricerca di evasioni, di miraggi, mentre la realtà è un deserto di noia. È preferibile allora –secondo lui – invocare la morte, raggiungere il fondo dell’abisso, sia inferno o cielo non importa – “nel grembo dell’Ignoto”, appunto -, pur di trovare qualcosa di nuovo. E noti che “Ignoto” è scritto con la i maiuscola, cioè rappresenta l’Aldilà, l’oltre questa vita.
«Attraverso l’esperienza della miseria umana Baudelaire scopre che l’uomo è un angelo decaduto. A questa stessa conclusione arriva anche Rimbaud, altro autore “maledetto”, che dopo aver cercato in fondo. E ancora un altro poeta, Verlaine, afferma che noi, insoddisfatti come siamo, ci mettiamo in viaggio verso altri cieli, altri amori.
«Ecco alcuni grandi autori che con le loro intuizioni ci stimolano ad andare oltre questa realtà materiale. Ed ecco il senso della ricerca: avviarsi con coraggio, con entusiasmo, con profondo senso del mistero, alla scoperta dei significati che danno sapore e significato all’avventura umana».
Mi ha incuriosito il bel titolo del suo ultimo volume: “Se ci fosse un Dio…”.
«È una frase di Paul Valéry, importante autore francese del Novecento, che ha scritto: “Se ci fosse un Dio, visiterebbe, credo, la mia solitudine, mi parlerebbe familiarmente nel mezzo della notte”. Valéry sentiva profondamente il dramma della solitudine e avvertiva la nostalgia di un Dio al quale potersi rivolgere e parlare confidenzialmente.
«Ma c’è questo Dio? E se c’è, posso io parlargli? E qual è allora il senso della mia vita? Donde vengo e dove vado? Nel libro rivolgo questi interrogativi ad alcuni autori per me emblematici: da Heinrich von Kleist, poeta tedesco con l’ossessione dell’immortalità, ad Andersen, anche lui un innamorato dell’oltre, dell’immortalità, del mistero, ad Anton Cechov, ateo ma con un forte senso religioso: se Dio non esiste – diceva – , tutto diventa assurdo, incomprensibile. E poi interpello una grande scrittrice quasi dimenticata, il premio Nobel Sigrid Undset. Sempre, nei suoi grandi romanzi, ci mette davanti al mistero della vita, del peccato, e approda a Dio, questo Dio che dà senso e valore alla nostra vita e alla nostra ricerca. Anche l’esistenza drammatica di Katherine Mansfield, ridotta ad un relitto umano e morta giovanissima, si compendia in questa ricerca alla quale probabilmente lei non ha saputo dare una risposta. E ancora interpello C.S.Lewis, Evelyn Waugh, i nostri Corrado Alvaro e Luigi Santucci, tutti ricercatori della verità sull’uomo…».
Nel complesso sono almeno un centinaio gli autori da lei trattati.
«Davvero? Non li ho contati. Sempre Nel grembo dell’Ignoto, tra quelli considerati due vorrei in particolare indicare: uno è Julien Green, i cui romanzi sono una discesa nell’inferno del cuore umano. E una volta lì in questo abisso, che cosa trova? Trova un’aspirazione alla redenzione, al bene. Sì perché in fondo l’uomo è alla ricerca di Dio anche se non lo sa.
«L’altro è Karl-Joris Huysmans. Questo scrittore nella prima parte della sua vita è stato un bohémien, un frequentatore dell’occultismo, un naturalista discepolo di Emile Zola, e anche un esteta puro. Finché, approdato un giorno ad una messa nera, ne ha avuto un tale orrore che ha deciso a cambiare vita: impresa drammatica per uno come lui, vissuto sempre nel disordine morale. Nei romanzi più tardi, veri piccoli capolavori, ha descritto il suo ritorno alla verità».
Tra le sue pubblicazioni quali considera le più importanti e a quali è più affezionato?
«Direi la trilogia intitolata Volti di Gesù nella letteratura moderna. Sono tre volumi in cui pongo la domanda “Lei che cosa dice di Gesù Cristo?” ad una trentina di autori. Le loro risposte sono variegate, ma sempre appassionanti. Come quelle di Gide e D’Annunzio, che avevano una invidia formidabile del Cristo e non si rassegnavano che egli avesse loro “rubato” quelle parabole così meravigliose».
Cito André Glucksmann: «Dio sta morendo. In Europa è persino già morto». Cosa ne pensa?
«È vero, oggi il clima è di morte di Dio, e molti scrittori contemporanei si muovono proprio in quest’area. Ma la morte di Dio coincide anche con la morte dell’uomo. E siccome l’uomo rifugge dalla morte, ecco allora che si aggrappa a qualcosa almeno che gli rappresenti Dio. Quindi dalla morte di Dio stiamo imparando a riscoprire Dio: un pensiero che condivido con un grande autore del secolo scorso, Eugene Jonesco».
Lei ha privilegiato soprattutto autori europei o comunque della cultura occidentale.
«Beh, le domande di fondo dell’uomo sono le stesse in tutte le culture. Per esempio del Giappone ho considerato un autore di grande rilievo come Shusaku Endo. Soprattutto ne Il silenzio e Il samurai egli si chiede: perché il silenzio di Dio? Nel dolore del mondo, nella terribilità delle guerre e delle persecuzioni, perché Dio non interviene e tace? Questo è un interrogativo tipicamente nostro, cristiano. Endo ha fatto di questo interrogativo il nocciolo dei suoi grandi romanzi, che svolge in maniera teologicamente perfetta».
E cosa dice di certi autori che hanno trattato figure di santi?
«In effetti la santità attira oggi molto più di ieri, probabilmente. Tutto sta nel saperla ritrarre con arte letteraria e in maniera storicamente fondata. Prenda Dostoevskij, maestro in questo campo, o lo stesso Cechov, Bernanos, Mauriac, Jan Dobraczynski, il nostro Giorgio Papasogli e tanti altri che in romanzi splendidi e ricchi di spiritualità hanno saputo ritrarre l’uomo nella sua dimensione profonda – e l’uomo nella sua dimensione profonda è ad immagine di Dio.
«L’agiografia è valida se autentica agiografia, e non agiografismo dove tutto è divino, tutto è bello… no, il santo è colui che conosce il peccato, lo sperimenta ma lo supera: allora troviamo l’uomo espresso in maniera splendida in queste figure».