Savonarola, un profeta disarmato
Nella seconda metà del Cinquecento, di fronte al clima dissoluto e immorale che si “respira” alla corte papale, non sono poche le voci che si levano invocando una riforma moralizzatrice dei costumi. Tra queste, quella del Savonarola, monaco domenicano. Ne La leggenda nera, I Borgia, Mario Dal Bello ricostruisce l’atmosfera infuocata di quegli anni.
«Firenze, 23 maggio 1498. In piazza della Signoria c’è molta folla. Un enorme palco di legno è stato innalzato di fronte al Palazzo. Siedono in ordine sulla ringhiera dei Signori i commissari apostolici e il tribunale degli Otto di guardia e di balia. Tre frati domenicani, scarni, a piedi nudi, indossano la sola tunicella bianca, senza lo scapolare. Guardano un altissimo palo, con appesi tre capestri e sotto fascine per il rogo. Sono fra’ Girolamo Savonarola, fra’ Domenico e fra’ Silvestro. Per prima cosa vengono sconsacrati, perché sono sacerdoti. Il vecchio fra’ Domenico Paganotti dice: «Io ti separo dalla Chiesa militante e dalla trionfante». E Girolamo, sommessamente: «Solo dalla militante, il resto non appartiene a te».
I tre si sono preparati alla morte dopo giorni di prigione e di tortura: hanno ascoltato la messa, fatto la comunione, sono sereni. Vengono condotti di fronte al commissario papale, quel Francesco Remolines, futuro cardinale del clan borgiano, che i fiorentini hanno battezzato “canaglia” per la sua disonestà. Legge la sentenza e poi chiede se accettano l’indulgenza plenaria da parte del papa. I presunti eretici e scismatici – questo il motivo della condanna – accettano umilmente. Scortati ciascuno dal confessore, si avviano verso il capestro, mentre dei ragazzacci tentano di ferirli con chiodi e alcuni li insultano con imprecazioni di ogni genere.
Sale per primo la lunga scala Silvestro. Prega finché il nodo lo soffoca e così anche Domenico.
Poi, tocca a fra’ Girolamo. Sale recitando il Credo. Dall’alto del patibolo osserva la folla. Qualcuno grida: «Savonarola, ora è tempo di fare miracoli!». Non risponde. Infila la testa nel cappio e oscilla nel vuoto. Sono le dieci del mattino. Poi, il rogo avvolge le salme. E tutto diventa cenere. Si conclude in questo modo violento il dramma che da alcuni anni vedeva in opposizione un predicatore carismatico e il papa-re Alessandro.
Fra’ Girolamo non era stato un frate come gli altri. Questo piccolo ferrarese, tutto naso e due occhi di fiamma, entrato in convento contro il parere dei genitori, era un uomo timido. Ma quando apriva la bocca, scuoteva le coscienze. Credeva fermamente nel vangelo. A Firenze, eletto priore del convento di S. Marco, aveva suscitato un’autentica riforma spirituale. Firenze era ricca, colta, e moralmente rilassata. Lorenzo de’ Medici teneva d’occhio il frate, si preoccupava delle sue prediche infiammate che denunciavano la corruzione dei costumi, senza risparmiare i signori e il clero. Il solito repertorio dei predicatori, si diceva. Lorenzo si era spento nel 1492. Girolamo aveva continuato la sua infuocata predicazione, predicendo castighi divini. […]
A Roma, papa Alessandro viene a sapere notizie dell’attività del frate, dei suoi sermoni infuocati specialmente contro il clero e la curia romana. Savonarola ha parecchi nemici nella curia, nel suo ordine e ovviamente a Firenze, dove però molta gente è con lui.
Il papa si preoccupa per i fiorentini così filofrancesi, lui che teme la deposizione da parte di re Carlo e manda a dire a Girolamo di scendere a Roma per spiegarsi, inviandogli una lettera piena di elogi. Il frate non se la sente: teme di non risalire vivo. Le cose si mettono male: Girolamo ha molti sostenitori nel governo cittadino, favorevole ai francesi.
In curia non vedono di buon occhio tutto ciò. Mandano una lettera al frate, l’8 settembre 1495, in cui gli si comanda la sospensione dall’insegnamento e dalla predicazione. Girolamo obbedisce e fa stampare le sue opere ascetiche per i fedeli. Ma la Signoria fiorentina, che conosce il carisma del frate e la sua influenza sulla pace sociale, insiste presso il papa perché Girolamo torni a predicare.
Alessandro dà oralmente il suo permesso al cardinal Carafa: non per iscritto, un atto prudenziale.
Nella quaresima del 1496 Girolamo tuona contro la simonia e la lussuria dei prelati, toccando da vicino lo stesso pontefice,la cui condotta è ben conosciuta. Profetizza sventure. Il papa manda un vescovo a sentire le prediche di Savonarola, il quale prevede la sua prossima fine violenta, così come è accaduto al Cristo. Dice di «non volere né mitre né cappelli, ma un cappello di sangue», cioè il martirio. Alessandro gli avrebbe offerto la nomina cardinalizia pur di farlo tacere? Certo è che per un determinato momento, forse colpito dalla sua grandezza morale, il papa lo lascia perdere.
Girolamo intanto prosegue nell’opera di riforma dei costumi in città. Anche con gesti eccessivi, di grande effetto: un “rogo delle vanità” – oggetti, libri, stampe, opere d’arte – e così via, un metodo già usato da Bernardino da Siena.
[…] La mattina della domenica delle palme del 1498, i “compagnacci”, cioè i nemici accaniti del frate, penetrano con la forza nel convento e lo arrestano. Seguono per il povero frate martoriato giorni di carcere, di torture ripetute, di buio spirituale. E poi la sentenza di morte, dopo un processo-farsa con la condanna già prestabilita. Questa la fine del “profeta disarmato”, come lo chiamava sprezzante il Machiavelli».