Sarah Scazzi, tutti in tv!
La deriva della “visibilità” nella tristissima vicenda della giovane pugliese uccisa dallo zio.
Pena, sentimenti di grande pena nascono non appena udite le notizie provenienti da Avetrana. Per la morte di una quindicenne nel fiore della vita. Per i lati oscuri della vicenda, certamente sordida. Per l’inferno vissuto dalla madre e dal padre. Ma c’è dell’altro.
Un intellettuale francese, geniale e pazzo, che rispondeva al nome di Guy Debord, nel 1967 aveva lanciato un’espressione che fece fortuna: la société du spectacle, la società dello spettacolo. In tempi in cui l’invasione dei mezzi di comunicazione di massa non aveva ancora preso possesso delle nostre giornate monopolizzandole, lo studioso aveva intravisto nella proliferazione dei media, in particolare nei meccanismi televisivi, una possibile minaccia: la vita degli umani trasformata in spettacolo, in esposizione continua delle proprie miserie e delle proprie conquiste. A danno dell’interiorità, della verità dei fatti, delle idee e delle cose.
Viene da ripensare a Debord ascoltando le notizie sul tragico epilogo della vicenda di Sarah Scazzi, la quindicenne di Avetrana, in Puglia, ritrovata morta in fondo ad un pozzo, uccisa dallo zio, Michele Misseri, reo confesso dopo undici ore di interrogatorio. La madre di Sarah, Concetta Serrano, viene a sapere della morte accertata della figlia mentre è in diretta tv nella trasmissione “Chi l’ha visto?”, quasi che l’apparire fosse un anestetico al dolore. Lo zio, l’assassino, negli ultimi giorni era andato più volte anch’egli in tv, denunciando il ritrovamento del cellulare della nipote sul bordo di una sua proprietà: pareva attirato dalla tv, probabilmente vedendo in essa un salvacondotto che avrebbe reso impossibile accusarlo del delitto. E così sua figlia, e sua moglie, e il padre di Sarah, e le sue amiche e tutti quanti. La stessa Sarah era poi una accanita utilizzatrice dei social network: tra le sue aspirazioni, confessate su Facebook, in testa c’era quella «di diventare famosa».
Tre riflessioni mi paiono a questo punto necessarie.
Prima: la profezia di Debord si è ormai avverata. Se anche nella profonda campagna pugliese si arriva a questi eccessi di visibilità, senza pudore, dimenticando il valore di una vita umana, morbosamente mettendo tra parentesi la riservatezza che certe vicende meriterebbero, vuol dire che s’è smarrito il senso della realtà, e della vita sociale.
Seconda: non si riflette abbastanza qui da noi sull’impatto dei mass media nella vita della gente, soprattutto per coloro che non sono attrezzati culturalmente per capire che tra reale e virtuale esiste una frontiera. Fragile, certo, sempre più fragile, ma realissima. Perso di vista tale confine, si rischia di perdere di vista anche il senso della responsabilità personale e di quella collettiva.
Terza: la visibilità non è in sé un male da demonizzare, tutt’altro. La nostra vita è infatti composta di interiorità (la vita spirituale) e di esteriorità (la vita sociale) che si compongono e si articolano in un reciproco rispetto. È la cultura (cioè l’educazione nelle sue più varie forme) che permette di regolarle. Ad Avetrana la società dello spettacolo ha distrutto l’interiorità di troppa gente, e anche la loro esteriorità.
Non resta che pregare per Sarah, e per tutti gli attori di questa sordida storia.