SANREMO n°53: un flop al bacio
Sotto i fendenti dell’Auditel l’ultimo festival della telecanzonetta italiana s’è sbriciolato come un colosso d’argilla. La più annunciata delle tragedie nazional- popolari è in realtà figlia di parecchi padri: lo sfascio dell’azienda che ne guida le sorti, un apparato discografico ormai alla canna del gas, la crisi di un modello televisivo consunto, l’incapacità di osare di tutte le corporazioni in campo. Potremmo proseguire, ma a ben poco servirebbe. Di sicuro c’è che questo Festival ormai piace a chi lo fa, molto più che a chi se lo deve sorbire. Ciò che un tempo era il fiore all’occhiello dell’italianità s’è ridotto a qualcosa a mezza via tra l’avanspettacolo e la sagra strapaesana: baci, lustrini, tanta “caciara” e quel mix di sacralità e paganesimo (canzonettaro, si capisce ) che non ha perso lo zoccolo duro degli irriducibili, ma ha ridotto i consumatori passivi, ovvero quelli che bonariamente lo tolleravano ingrassandone gli share degli anni belli. Altrettanto certo è che quest’anno il festival non l’ha vinto nessuno, tutt’al più qualcuno l’ha perso un po’ meno: e penso alle effervescenti presentatrici che vedranno lievitare i loro caché, a Britti ed Alexia che pure non venderanno, ma potranno consolarsi coi concerti; penso al talentuoso Cammariere finalmente uscito dal sottoscala del cantautorato minore, e forse anche alla grintosa Dolcenera che potrà raccontare agli eventuali nipoti d’aver vinto l’ultimo Sanremo vero. Essì, perché il prossimo o sarà davvero diverso o rischia di diventare soltanto una parodia o una penosa caricatura di sé stesso. Ciò detto, non si vedono che due alternative, tanto obbligate quanto difficilmente praticabili: un robusto ridimensionamento (di serate, di protagonisti e di ore di trasmissione), o un radicale cambio di rotta (per esempio, uscendo dall’insensata logica delle classifiche e trasformare il Festival in qualcosa di simile agli Oscar o ai Grammy Awards americani). In ogni caso, non sarà più possibile assemblare un Sanremo così come è stato negli ultimi vent’anni: perché fin dalla prossima edizione gli organizzatori sconteranno il flop di quest’anno: in termini di immagine e di investimenti pubblicitari. Il che vuol dire che sarà quasi impossibile non solo pagare una qualunque Sharon Stone a darci lezioni di morale a 20 mila euro al minuto, ma anche un discografico disposto a buttarne 150 mila per veder jalissare un clone di Tizio o di Caia. Epperò, nonostante la gran batosta dei dati d’ascolto, la pochezza degli ingredienti, e il millantare d’innovazioni solo apparenti, la turris eburnea del baudismo appare ancora ben salda nelle proprie convinzioni e tutt’altro che intenzionata a mollar l’osso. Come qualunque allenatore prossimo a retrocedere: non già dalla Champions League alla coppa Uefa, ma dalla A direttamente in C2; e senza neanche un Cecchi Gori a cui dar la colpa… Che tenerezza! COSA SALVARE ALEXIA: Per dire di no – Una ballatona che strizza un occhio al soul americano dei Sessanta. Più furba che bella. ALEX BRITTI: 7000 caffè – Pop-blues con sfoggio di virtuosismo chitarristico e testo imbarazzante. Ma in radio funzionerà alla grande. SERGIO CAMMARIERE: Tutto quello che un uomo – A metà strada tra Capossela e Tenco. Sergio è un ibrido ancora irrisolto, ma resta il più promettente dell’ultima nidiata cantautorale nostrana. GIUNI RUSSO: Morirò d’amore – Romanza di rara intensità per il più struggente dei ritorni. NINO D’ANGELO: ‘A storia ‘e nisciuno – Splendido esercizio interpretativo e compositivo penalizzato solo dal dialetto. Per scacciare per sempre i fantasmi neomelodici. E. RUGGERI & A.MIRÒ: Nessuno tocchi Caino – Tema d’alto profilo, svolgimento un po’ meno elevato ma comunque bastante a rischiarare le tenebre circostanti. LITTLE TONY & BOBBY SOLO: Non si cresce mai – Con un pizzico d’autoironia in più avrebbero lasciato il segno. Invece, la canzoncina oscilla tra il tenero, il simpatico e il patetico.