Sanremo. In attesa del gran finale
In questo Paese di misteri e di conti che non tornano, Sanremo ci si è sempre specchiato con sardonica compiacenza. E lo sta facendo anche quest’anno, riflettendo a sua volta l’anima bifronte di un popolo contraddittorio almeno quanto le sue istituzioni, odiate o amate che siano.
Così può accadere che il Festival più povero e noioso di questi ultimi vent’anni faccia il pieno d’ascolti, che il principe dei banalisti televisivi smentisca le profezie dell’intellighenzia massmediatica, e che il nazional-popolare resusciti dalle gogne spassandosela sulle rovine di un paese reale in ginocchio.
Questo è ciò che recitano i freddi dati d’ascolto del 65° Festival della canzone italiana (quasi il 48 per cento di share e quasi due milioni di spettatori in più rispetto alla quarta serata dello scorso anno. Quel che i numeri non dicono però, è che Sanremo è, da sempre, anche il regno dell’apparenza. Innanzi tutto perché share eaudience non sono sinonimi di gradimento; poi perché il gentlemen agreement dei signorotti della tivù ha praticamente raso al suolo qualunque ipotesi di concorrenza fra palinsesti: in questi giorni chi non può permettersi libere uscite o pensa che un buon libro sia un compagno troppo frigido, l’unica alternativa a Sanremo è la briscola o un solitario. E poco importa se i sorrisoni di Carlo Conti sembrino più artificiali della sua abbronzatura.
Detto questo, la terza e la quarta serata ci han detto che l’immortale Se telefonando riproposta da Nek è ancora, al pari di molti altri classici, un gioiellino in grado di ridicolizzare la pochezza di gran parte delle canzoni in gara quest’anno; ha eletto il giovane siciliano Giovanni Caccamo come miglior giovane proposta (dopo aver sconfitto in finale i ben più frizzanti Kutso): un bel faccino, voce e canzone decenti ma tutt’altro che irresistibili, Battiato come padrino e Raphael Gualazzi come format di riferimento; una vittoria tanto annunciata quanto plebiscitaria. Poche sorprese anche fra i big: le quattro canzoni escluse dal gran finale erano effettivamente ben poca cosa, anche se Vita d’inferno di Biggio & Mandelli era, almeno nelle intenzioni, un simpatico sberleffo alle convenzioni festivaliere.
Tra qualche ora, nel pieno della notte di San Valentino, il vincitore assoluto e i perdenti relativi. Perché stavolta davvero, come recitava un vecchio adagio chiambrettiano, “comunque vada sarà un successo”: se non per i vari Nek (il papabile più quotato in queste ore) e compagnia cantante, almeno per questo Festival e chi ce l’ha cucinato.