Sanremo, effetto DC
Potremo pure chiamarlo Effetto DC. Là dove la sigla sottintende non solo i trionfatori della stagione in corso (l’accoppiata pigliattuto De Filippi – Conti), ma anche quel pacioso procedere tra i marosi e le correnti circostanti che la Balena Bianca democristiana dei tempi d’oro sapeva solcare con suprema nonchalance.
Quasi 600 giornalisti accreditati a rappresentare quasi 250 testate. La solita giungla di fotografi e aficionados soppressati alle transenne, e il corredo di sempre: i cantanti ansiosi e gasatissimi, e quelli che galleggiano su routine già mille volte navigate.
Quest’anno più che mai Sanremo pare l’imbuto massimo degli share. Ovvio, dato che i due maggiori partiti del fronte nazional-popolare si sono coalizzati in una sorta di patto di ferro per far fronte a tutte le inquietudini del presente e scodellarci codesta gran panacea.
In realtà è sempre stato così il festivalone nostro; solo che stavolta le canzoni appaiono un ingrediente ancor più pretenzioso e marginale del solito; un semplice detonatore per innescare la rassicurante frivolezza dell’ovvio, come esige la logica del grande Barnum dell’effimero mediatico. Ha ragione Mattia Feltri che su La Stampa ha scritto: “la musica a Sanremo è un alibi, come nelle nostre discussioni sui social network, nei talk, nelle campagne elettorali, in cui le questioni sono soltanto il pretesto per farci attorno un pretenzioso balletto del futile, e poi disprezzarlo”. Condivido in pieno, ma aggiungo anche che Sanremo è nutrito oltre che dai suoi irriducibili aficionados, anche da un ecosistema di corporazioni: per questo suona diverso a viverlo da dentro o a sorbirlo da fuori: dentro è tutto un tourbillon, una frenesia d’esaltazioni reciproche, ma fuori si porta appresso la noia di tutti i tran tran di lusso.
In tutto questo, la melodia – da sempre fiore all’occhiello del “made in Italy” da esportazione – pare un po’ sotto tono, mentre i testi, qui da sempre specchio moderatamente deformato della realtà sociale circostante, sbrodolano l’amore (il bene rifugio d’ogni età depressa) in tutte le salse e desinenze. In genere la solita fiera delle banalità, con l’eccezione luminosa della Mannoia (per la canzone, meno per l’interpretazione), comunque una spanna su tutti e non solo nei pronostici: perché oggi più che mai è difficile parlare e cantare la Vita con ottimismo sincero. Anche se ci sarà pur qualcun altro (tipo Samuel o Gabbani, la Turci o il giovane Guasti) che ne uscirà con la carriera rafforzata: ma a fronte di un nugolo di polvere di stelline collassate per sempre.
Che altro dire? É un Sanremo da tanto pe’ parlà (più che cantà) con troppe infibulazioni buoniste tenute insieme pretestuosamente, spesso gonfie di retorica, di rado realmente emozionanti. Una fiera del superlativo dove tutto è stupendo, memorabile, straordinario. E le canzoni, come dicevo, sempre più un accessorio buono soprattutto per passare da un ospite – o da un blocco pubblicitario – all’altro.
Il meglio? Ognuno ha il suo, o i suoi. Al momento, per me, il duetto Cortellesi-Albanese, quello di Consoli e Ferro, certi lampi di Crozza, l’inatteso e perfetto garbo della De Filippi. Del resto al Festival, il meglio è quasi sempre fuori concorso.
Insomma, a quanto pare il vecchio tormentone “Perché Sanremo è Sanremo” è ancora più che valido; la novità è che nessuno di questi tempi ha più il ghiribizzo di pretenderlo o sognarlo diverso.