Sanremo 2024, finale in gloria per Angelina Mango
È finito in gloria, coi suoi frizzi e i suoi lazzi, i suoi abbracci famigliari, gli appelli pacifisti, e naturalmente i suoi verdetti (temporanei, in attesa di quelli ben più importanti sanciti dai mercati). È finito coi sold out sui divani d’Italia, con gli entusiasmi quasi isterici all’Ariston per la modica cifra di 730 euro a biglietto, e quelli gratuiti del popolino, a pressare le transenne appena fuori.
Cosa ha detto questa 74esima edizione del Festival più atteso d’Italia? Innanzi tutto, che è ancora un grande rito collettivo che, quest’anno ancor più del solito, ha unito il Paese anziché dividerlo come accadeva un tempo. Forse perché tante sono le inquietudini e le angosce di questo presente, per cui il desiderio d’evasione, di cantare e ballare insieme, ha surclassato ogni altra voce e zittito quasi ogni polemica collaterale. O forse perché in questo presente la cultura ‒ musicale e non – non è mai stata così bistrattata e ormai siamo quasi tutti assuefatti a quel che passano le convenzioni e i banalismi del pop. Del resto “panem et circenses” è una formula che funziona in questo Paese dai tempi di Giovenale.
E dunque, cosa sopravviverà di questa edizione? Come spesso accade da queste parti il momento più intenso – e per distacco, direi ‒ non è stato regalato da una canzone, ma una “performance” di straordinaria intensità: la testimonianza di Giovanni Allevi, un musicista ipersensibile affetto da un grave mieloma: parole potenti ed emozionanti insieme che per certi versi hanno ricordato quelle del compianto Ezio Bosso.
Per il resto, questo gran supermercato del provincialismo italico (ma forse proprio per questo ancor più esportabile) ha centrifugato un gran numero di discrete canzoni (ovvero non eccellenti, né mediocri), momenti alti (tra i quali includerei anche alcuni duetti straordinari, come il medley di Ghali e quello di Vecchioni col giovane Alfa, o i Negramaro con la Ayane), ma anche qualche parentesi decisamente cringe come il Ballo del qua qua nel quale è stato strizzato un mito scorbutico come John Travolta. Certo per alcuni, come l’appena citato Alfa, ma anche per BigMama, Gazzelle, Maninni, Il Tre e qualche altro giovanetto di buone prospettive ha rappresentato uno straordinario trampolino di lancio (da sfruttare stando attenti a non spiccare un salto troppo alto), per altri come la Mango o Ghali una sorta di consacrazione, per altri ancora, come la Bertè o i Ricchi e Poveri, quasi una resurrezione.
Quanto ai verdetti, poco da discutere, ha vinto La noia, ma soprattutto ha vinto questa figlia d’arte d’indubbio talento, simpatia e spontaneità. A seguire Geolier uno dei signori indiscussi della scena contemporanea, e Annalisa, forse il brano più “sanremese” fra quelli proposti quest’anno. Alla Bertè è andato invece un Premio della Critica (dedicato alla compianta sorella Mimì) che sa tanto di tributo a una carriera spesso sopra le righe epperò tutto sommato onesta e appassionata.
Sarà bene ricordare che da qualche anno ormai, l’80% delle canzoni che consumeremo nei prossimi mesi, viene da qui. Questo per dire il peso di Sanremo nel music-business italico attuale. Onore al merito dunque: ad Amadeus e alle sue scelte più che mai paganti, almeno a giudicare dai super ascolti di quest’anno. Finisce la gaia epoca di Amadeus, per la prossima vi faremo sapere.