Sanremo 2023: un festival bipolare
Mi sorge il dubbio che il Festivalone d’Italia sia – quest’anno più che mai – più bipolare che ecumenico. Da un lato, una palestra perfetta per i bastian contrario, il paradiso dei polemisti, il regno del “purché se ne parli”. E dall’altra, tutto proteso in uno sforzo titanico di mettere insieme l’inconciliabile per farlo sembrare universale. Una Terra di Mezzo perennemente mutante, ma nel contempo, una messa cantata che, come tutti i riti, trova la sua forza e il suo appeal nella ripetitività: le battute e i superlativi dispensati dai bravi conduttori, le emozioni dei protagonisti, le banalità del copione e delle canzoni.
Le sorprese – quelle vere – non sono previste dal copione, e quando capitano – come con Blanco nella prima serata, o Fedez e Angelo Duro ieri sera – quasi sempre lasciano strascichi sui quali certa politichetta adora sguazzare e battagliare. Perché qui tutto è incastonato nelle leggi sempiterne di un format liturgico che trova la sua forza proprio nel suo rassicurante essere sempre uguale a sé stesso, provocazioni comprese. E poco importa se Rosa Chemical ricordi smaccatamente le pittoresche trasgressioni già ampiamente metabolizzate di un Achille Lauro, o se i richiami più alti – come quelli dedicati ieri sera alle oppressioni del regime iraniano e al degrado delle carceri minorili – vengano poi indirettamente smentiti o smorzati nella loro forza dalle contraddizioni circostanti.
Meglio limitarci, dunque, a più basse questioni. Ora che tutte le canzoni sono sfilate in passerella, il panorama festivaliero va delineandosi, coi suoi promossi e i suoi bocciati o rimandati. Tra i primi certamente Mengoni e la sua Due vite che pare proprio costruita per vincere, anche se all’Ariston non si può mai dire. Ma tra chi sta facendo la sua figura ci sono certamente Elodie, Levante, e l’accoppiata Colapesce & Di Martino che si confermano cavalli di razza, così come tra i modernisti, Lazza e Madame hanno messo in mostra una quasi oggettiva superiorità rispetto ai numerosi epigoni di questa edizione (poca cosa davvero le nuove proposte).
Tra gli outsider non sono dispiaciuti il giovane Gassman, Mara Sattei e Mr Rain (se non fosse per quei due poveri bambini “angiolettati” davvero fuori luogo). Finora hanno deluso Ultimo e la Oxa, Giorgia (una canzone elegante, ma irrisolta, la sua), gli imbarazzanti ma immarcescibili Cugini di Campagna, e fra gli ospiti, gli ormai bollitissimi ma irriducibili Pooh, mortificati dal confronto coi tre “highlanders” (Morandi, Ranieri e Al Bano), indiscussi trionfatori della seconda serata. Quasi tutti gli altri galleggiano ancora in quel limbo di appena passabili che separa gli sparuti fuoriclasse dal popoloso quartiere dei mediocri e dei raccomandati che da sempre sgomita nei bassifondi del music-business italico.
Chi vincerà? Una domanda che oggi pare più che mai irrilevante (ché l’unica tenzone è quella che si sta consumando sui social e tra i quasi due milioni di adepti del Fantasanremo). E anche da questo s’evince che il vero colpo di genio cui bisogna dar atto a queste ultime edizioni è stato quello d’aver trasformato una (s)cadente balera per anziani in un’arena dall’appeal transgenerazionale. Ma anche su questo nutro qualche piccolo dubbio, ché mi sa che agli aficionados più stagionati, il menù di quest’anno risulti un pelino indigesto. Buon proseguimento.
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