Sanremo 2022: brividi di febbre
Il Festival e tutti noi siamo dunque felicemente entrati in fase post (nel senso di postumi). Anche se, diciamolo, nessuno ne ha una gran voglia, il Paese può dunque tornare ai suoi quotidiani garbugli. E tuttavia di questo Sanremo 2022 se ne parlerà ancora per un pochetto. Vuoi per i rinculi di certe sue irriverenze e per le sue straripanti ostentazioni Lgbt, vuoi per quei brani che da qui sono appena decollati verso un florido futuro (pochi, ma non pochissimi), vuoi per l’eventuale Amadeus IV, dato che in questo Paese – Mattarella docet – trovare il successore di chi funziona è sempre un gran rompicapo.
L’outlet sanremese è stato anche quest’anno una location perfetta per portare alla luce certe incongruenze del presente; un metaverso dove l’inconsistenza servita con classe surclassa il valoriale alto ma offerto maldestramente (non faccio nomi, ma sono certo che ognuno avrà ha i suoi); una Terra del Sottosopra dove le emozioni stravincono sui contenuti, dove si chiama una sarda a far da testimonial alla Liguria, dove si mischiano sermoni e commemorazioni, autopromozioni e canzonette; dove le iperboli celano la piattezza e la leggerezza sfiora l’inconsistenza, dove la mancanza di memoria fa chiamare rivoluzione un revival, ma dove le rimembranze suonano sempre più moderne del presente.
Ma torniamo al semiserio effimero. Che ci ha detto questo settantaduesimo Festival? Innanzi tutto che Sanremo è tornato ad essere più Sanremo che mai, ritrovando la sua antica vocazione – e il suo appeal – di collante nazionalpopolare e transgenerazionale: ad immagine e somiglianza di un popolo sufficientemente maturo da saper scegliere tra un’Elisa e un Tananai, ma non ancora abbastanza per distinguere al volo un artista da un artigiano, o da un mestierante, o da un dilettante. In particolare per quel che riguarda i testi dei giovani, in gran parte imbarazzanti nella loro pochezza poetica e contenutistica. Dubito che il problema possa risolversi abolendo gli scritti alla maturità.
Tra i fuori dal podio preserverò lo struggente Ranieri, lo spiazzante Giovanni Truppi, lo scanzonato Dargen D’Amico, e l’intenso Irama. Ma in questa materia ognuno ha il diritto alle proprie opinioni. Tra i fuori concorso invece, mi piace ricordare il trascinante Cremonini, l’orazione civile di Saviano, la poesia della Gualtieri letta da Jovanotti, qualche guizzo di Fiorello e Zalone, e certi lampi di classe overgender di Drusilla: più o meno un’oretta di ottima televisione, diluita in una settimana di coriandoli. Perché gran parte del menù, credo sia già entrato nell’oblio un nanosecondo dopo la sua ultima messa in onda, inclusi tutti i paté massmediatici che anche quest’anno hanno nutrito questo ecosistema fino a rendere sanremocentrica qualunque realtà. Per quanto, non dimentichiamolo mai, la passerella dell’Ariston servirà a molti protagonisti soprattutto a garantirsi qualche concerto estivo ben pagato, e alla Rai, a riprendersi dalle carestie pandemiche.
Un’ultima annotazione: anche se avrei preferito avesse vinto Elisa, per la prima volta da che seguo Sanremo, le prime quattro canzoni in classifica mi sono parse anche le più meritevoli e le più giuste per questo contesto. Il che mi ha reso felice, almeno fino a che, un secondo dopo, ho cominciato a sospettare d’essere sbagliato io.