Sanremo 2019: sovranismo canzonettaro

Il sessantanovesimo Festival della Canzone Italiana è stato varato in pompa magna. La rassicurante formula baglioniana – “una messa cantata”, l’ha giustamente definito - continua a pagare in termini d’ascolti e fatturato, anche se lo share (49,5%) è in lieve calo rispetto alla scorsa edizione.  
ANSA/ETTORE FERRARI

Ventotto milioni di proventi pubblicitari: tre in più dello scorso anno. Mica male per un’azienda disposta a tutto pur di rastrellare denaro da investire altrove, ma soprattutto più che mai (pre)occupata dalla politica che tutto fagocita e irretisce di questi tempi.

 Ventiquattro canzoni in gara, cinque interminabili serate per un evento che, con la connivenza d’ogni tipologia mediatica, sia ancora in grado di polarizzare l’attenzione nazionale per un’intera settimana; l’unico rito che qui da noi ancora funziona, anche presso chi lo dileggia. Ieri sera l’hanno seguito circa 10 milioni di italiani.

La prima serata è già in archivio, ma ci ha messo quattro ore e mezza per levarsi di mezzo (del resto per far spazio a un Dopofestival per terminali irriducibili): l’ipertrofico neo sovranismo alla sanremese ammalia insomma più degli altri: per la consueta mancanza d’alternative credibili, ma anche per la sua capacità di autorigenerarsi nella sua rassicurante prevedibilità e in tutta la sua magniloquente autoreferenzialità.

Prime impressioni generali: troppe canzoni e troppo simili, in gran parte segnate dal medesimo cliché che, d’altra parte, pare essere ormai il nuovo format canzonettaro: inizio parlato o sussurrato, apertura melodica, chiusura dimessa. Con parecchie interpretazioni non sempre all’altezza della qualità dei brani proposti, ma si sa: questo è un palco capace di far tremare qualunque glottide. A conti fatti l’idea di farle sfilare tutte subito queste 24 canzoni, non mi è sembrata la quintessenza della strategia: davvero troppa roba per non rischiare d’annoiare. Di certo se il conducador Baglioni e il suo gruppo di lavoro lo scorso anno potevano contare sull’effetto sorpresa, quest’anno affrontano un’impresa ancor più ardua, giacché in quest’ambiente più che altrove confermarsi al top è ben più arduo che arrivarci. Vedremo come andrà il seguito.

Scendendo nel dettaglio, almeno per quel che finora è emerso, paiono abbastanza scontati i primi orientamenti di voto: Silvestri e Cristicchi hanno indubbiamente due belle canzoni, probabilmente le migliori del lotto, mentre si confermano autori di vaglia sia il giovane Ultimo che Irama. Quanto al resto del plotone, l’unico altro brano che mi ha stuzzicato è la solare Per un milione dei Boomdabash. Non male anche la proposta del giovane italo-egiziano Mamhood, penalizzato solo da un passaggio ad orari impossibili; bravi ma chiaramente fuori contesto le stelle recenti o di nicchia come Zen Circus, Ghali, e Motta. Questioni di gusto, beninteso, e pareri che potrebbero modificarsi col sommarsi degli ascolti.

Fuori dalla tenzone ho trovato abbastanza divertente l’invenzione mischia-musical proposta da Virgilia Raffaele insieme al redivivo Favino, mentre m’è parso deludente e confusionario l’omaggio al Quartetto Cetra, offerto da Santamaria e i tre conduttori. Come performance, Giorgia ha confermato d’essere ancora una delle più belle voci nostrane, mentre l’ascolto di Fall on me dei Bocelli padre e figlio basta a dimostrare che l’ambrosia nostrana miscelata a un tocco di cosmopolitismo sia stata la formula giusta che ha consentito a un disco italiano di riassaporare, dopo sessant’anni, i vertici delle impervie classifiche anglo-statunitensi.

Tornando all’insieme, una sfilata senza lode e senza infamia: proprio come questo Festivalone pianeggiante, con alti senza picchi, e depressioni tutto sommato superficiali, quasi a far da contraltare a una realtà circostante che, viceversa, appare tutto un groviglio di eccedenze e di eccessi. Stasera altra razione di sbobba e di lustrini, e buon proseguimento a tutto il popolo dei divanizzati.

 

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