Sanità, la denuncia dei medici: mancano risorse, medici e infermieri
La sanità pubblica è in emergenza. Servono fondi ingenti, che non ci sono. Serve personale, ma gli infermieri scarseggiano e i medici pure, decimati da “tagli irresponsabili”, dai pensionamenti e dalle fughe verso il settore privato o verso l’estero, con una media di circa mille l’anno. I servizi di emergenza sono sguarniti: colpa del numero chiuso alle Università, ma anche del basso trattamento economico, delle minacce e delle denunce che spesso deve affrontare chi lavora nel Pronto soccorso. Le differenze tra le regioni si sono ampliate, con gravi squilibri nel Centro Sud. Le liste d’attesa sono lunghe e difficili da smaltire, non c’è programmazione e una vera riforma al momento risulta inattuabile.
È un quadro davvero avvilente, seppure reale, quello che è emerso, questa mattina, nel corso del seminario dal titolo “Il Servizio sanitario nazionale di fronte al tema del recupero prestazionale” promosso dall’Osservatorio salute previdenza e legalità Eurispes-Enpam.
Nella sala del suggestivo Museo Ninfeo, in piazza Vittorio Emanuele II a Roma, si sono confrontati Alberto Oliveti, presidente dell’Enpam, Gian Maria Fara, presidente dell’Eurispes, Nino Cartabellotta, presidente della Fondazione GIMBE, Francesco Cognetti, presidente della Confederazione oncologi, cardiologi, ematologi (FOCE), Filippo La Torre, professore di Chirurgia generale presso l’Università La Sapienza di Roma e Pierluigi Bartoletti, vicesegretario della Federazione italiana medici di medicina generale. Ha coordinato i lavori Alberto Baldazzi dell’Eurispes.
Innanzi tutto, ha spiegato il presidente dell’Enpam Oliveti, «Servono fondi. Proprio in questi giorni c’è stato un confronto Stato-Regioni. Faccio una sintesi: le Regioni hanno detto: “i soldi non ci sono, tagliamo i servizi”. Lo Stato ha risposto: “i soldi non ci sono, facciamo un tavolo di confronto”. Quindi è chiaro che dovremo utilizzare al massimo quello che abbiamo. L’integrazione professionale tra ospedali e territori sarà non solo spontanea, ma anche spintanea, dovremo migliorare e utilizzare tutte le tecnologie disponibili, anche se qualcuna – tipo la telemedicina – è ancora abbastanza virtuale più che davvero fruibile. Stante le risorse scarse – ha concluso Oliveti -, dovremo cercare di individuare priorità sia nell’assistenza che nella prevenzione e cercare di garantire quelle individuate con i massimi criteri di uniformità possibili». Insomma, sarà una partita sfidante e molto complessa.
(Guarda di seguiro l’intervista al presidente Oliveti fatta a margine del seminario. Foto di Cristofariphoto Enpam)
Molte delle carenze esistenti, ha sottolineato il presidente dell’Eurispes, Gian Maria Fara, erano presenti anche prima della pandemia. La situazione post Covid è però peggiorata e ad una emergenza ne è seguita un’altra. «L’Osservatorio Enpam Eurispes – ha affermato Fara – vuole accendere i riflettori sull’impatto del Covid sul sistema sanitario nazionale e soprattutto sul mancato diritto alla salute dei cittadini che rischia ulteriormente di acuirsi. Ricostruire la resilienza della nostra sanità è, infatti, un’emergenza non più prorogabile in un momento in cui da più parti si sottolinea che altre pandemie e altre situazioni critiche potrebbero investire nuovamente la comunità globale. Quando parliamo di resilienza non vuol dire solamente essere in grado di pianificare la risposta ad una congiuntura di crisi sanitaria, ma fortificare un intero sistema e modificare quegli aspetti che hanno mostrato maggiormente la loro debolezza anche prima dell’evento pandemico». Per l’Eurispes è inoltre fondamentale la programmazione, che invece nella sanità si scontra spesso con l’improvvisazione.
Della situazione difficile della sanità pubblica ha parlato anche Nino Cartabellotta, presidente della Fondazione GIMBE. «Noi ci siamo affacciati alla pandemia, come Servizio sanitario nazionale, con la sanità pubblica profondamente indebolita da dieci anni di tagli dei finanziamenti che nelle nostre analisi stimiamo intorno ai 37 miliardi, che si sono abbattuti prevalentemente sul personale sanitario o con posti letto ospedalieri che sono stati ridotti con parametri più o meno accettabili e soprattutto senza il potenziamento del territorio in alcune regioni. Quindi il Servizio sanitario nazionale, quando è arrivata la pandemia, non era in condizioni di gestire un’emergenza e abbiamo visto delle conseguenze anche abbastanza importanti in termini di mortalità, morbilità e ritardo di prestazioni che si sono accumulate nel tempo».
Andando a fare una fotografia oggi di quelli che sono questi effetti cronici, afferma Cartabellotta, vediamo che sono emersi nuovi bisogni di salute: c’è il long Covid, ci sono problematiche di tipo psicologico e psichiatrico soprattutto tra le fasce più giovani della popolazione, c’è il problema di un personale indebolito sia quantitativamente – pensate a quanta gente è andata in pensione in anticipo, si è spostata sul privato… – sia qualitativamente. Oggi abbiamo un Servizio sanitario nazionale che sta peggio rispetto al 2019 e di questo dobbiamo prendere atto, anche perché tutto il denaro pubblico investito negli anni dal 2020 al 2022 non è servito a rafforzare la sanità pubblica, ma solo a gestire l’emergenza. Per quanto riguarda i piani di recupero regionali, «di fatto nessuna Regione – ha commentato il presidente della Fondazione GIMBE – è riuscita a recuperare le prestazioni perché – anche se hanno i soldi – manca il capitale umano per erogarle».
Ma «che significa recupero delle liste d’attesa? Dopo tre anni – ha affermato Francesco Cognetti, presidente della Confederazione oncologi, cardiologi, ematologi (FOCE) – quello che è perso non si recupera più in termini clinici, ci dobbiamo ribellare a questa propaganda». Con i piani di rientro sono stati chiusi 150 ospedali in tutta Italia, abbiamo perso un numero incredibile di posti letto, e così, ha aggiunto Cognetti, il Ssn si è presentato impreparato di fronte alla pandemia, con il risultato che in Italia la mortalità da Covid è stata tra le più alte.
Non solo: la mortalità per le patologie cardiovascolari è raddoppiata e ancora devono arrivare le conseguenze per il blocco degli interventi chirurgici e degli screening tumorali, per i quali l’Italia non ha comunque mai brillato.
Dunque, come si può intervenire in questa situazione? Si interviene con piani straordinari di riforma del Ssn, difficili da attuare con la scarsità di medici e infermieri, che non possono essere spostati dagli ospedali verso le case di comunità. «La riforma – ha commentato Cognetti – è assolutamente campata in aria e inattuabile. Lo abbiamo detto anche al ministro, siamo molto preoccupati».
I problemi riguardano anche i medici di medicina generale, troppo pochi rispetto alle necessità della popolazione, spesso anche a causa della mancata pubblicazione dei bandi da parte delle Regioni. I medici di famiglia dovrebbero fornire i loro servizi anche nelle case di comunità, ma purtroppo, al momento, ha spiegato Pierluigi Bartoletti, vicesegretario della Federazione italiana medici di medicina generale, non hanno ricevuto rassicurazioni né incentivi professionali o economici. Per avere un servizio di qualità, con un medico che nello studio abbia a disposizione strumentazioni come gli ecografi e un laboratorio, così da poter fare una prediagnosi e mettere il paziente in collegamento con gli specialisti, sul modello tedesco o comunque del nord Europea, c’è bisogno di seri investimenti. Finora i medici non hanno ricevuto risposte alle loro domande sul funzionamento delle case di comunità perché la priorità sembra essere quella, semplicemente, di riempire queste nuove strutture. Per Bartoletti servirebbe una gestione diversa del malato, con dimissioni dagli ospedali non solo nel week end, l’individuazione di stanze dove i pazienti possono attendere i parenti dopo aver lasciato le stanze, insomma, una più adeguata ed efficiente organizzazione dell’assistenza.
I ritardi nelle prestazioni accumulati durante la pandemia, ha spiegato Filippo La Torre, professore di Chirurgia generale presso l’Università La Sapienza di Roma, sono stati enormi. Basti pensare che c’è stata una riduzione degli interventi, in Chirurgia d’urgenza, dell’83%. E purtroppo anche se alcune regioni annunciano di aver recuperato le prestazioni di chirurgia ambulatoriale e delle attività di screening, si tratta di dati falsi – non perché dicono il falso -, ma perché le rilevazioni non si riferiscono alla necessità reale del territorio. La situazione, purtroppo, è peggiore di quella del 2019. “Tra le possibili soluzioni per affrontare il problema ci sono un largo piano di assunzioni e, soprattutto, un rinnovo dei contratti di tutto il personale sanitario pubblico e un piano di investimenti volto al rinnovo delle strutture oggi obsolete e fatiscenti. Insieme a questi aspetti vanno considerati: il coinvolgimento del privato convenzionato per coprire i tempi ed i modi del rinnovo del Ssn; una ristrutturazione del sistema della Urgenza/Emergenza; la presenza di medici di famiglia ed ambulatori territoriali gestiti in modo da ridurre gli accessi incongrui in ospedale».
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