Sangue a Tunisi
Come sempre accade, il terrorismo appare d’improvviso dove meno ce lo si aspetterebbe. E colpisce questa volta anche gli italiani, così come il resto dell’Europa. I più di venti morti del Museo del Bardo – simbolo della migliore stagione romana in Africa settentrionale, quella dell’arte – suonano come quelli di Charlie Hebdo e di Copenhagen: un attacco al cuore della cultura europea. In realtà i terroristi (Isis? Al-Qaeda? Gruppi sciolti? Ancora non è chiaro, ma in fondo poco importa) volevano colpire il simbolo della democrazia nel mondo arabo, quel parlamento che aveva saputo coraggiosamente redigere una costituzione aperta e che aveva cominciato a conoscere quel meccanismo virtuoso della democrazia che è l’alternanza. L’attacco ai turisti è stato un ripiego, ma le modalità e il luogo sono stati altamente simbolici.
Ne parliamo con Adnane Mokrani, docente di Studi islamici a Roma, tunisino e musulmano: «Ovviamente non è stata una sorpresa – esordisce –: negli ultimi mesi i video di minaccia sono stati tantissimi. Ci si aspettava qualche attacco, ma non sapendo né il giorno né il luogo». Per Mokrani l’idea è chiara: «È un attacco contro i simboli della nazione: parlamento e museo, politica e cultura. E contro gli stranieri e l’economia tunisina, perché il turismo, indispensabile per la Tunisia, ha ricevuto un attacco che potrebbe essere mortale. Proprio l’altro ieri il primo ministro aveva parlato delle difficoltà economiche del Paese».
Mokrani sottolinea pure come quello del Bardo non sia stato il primo atto terroristico in Tunisia: «Avevano colpito nelle zone montagnose al confine con l’Algeria, uccidendo soldati e forze di polizia. Non va dimenticato, poi, che da qualche mese è in atto una grande lotta delle forze di polizia e dell’intelligence contro il terrorismo: hanno scoperto covi e fatto numerosi arresti negli ultimi giorni. E proprio ieri il Parlamento stava discutendo una nuova legge contro il terrorismo».
Reazioni della società civile tunisina? «Non vedo nessun orizzonte politico praticabile per il terrorismo e il califfato. Questa strage è una triste occasione per unire ancora di più il popolo e la società civile che è attenta alla nuova via intrapresa dalla politica locale. Il consenso politico e sociale per l’attuale forma di governo c’è: è un’esigua minoranza che vuole attaccare la democrazia, appoggiata da poca gente, anche se si parla di 3 mila tunisini partiti a combattere nell’Isis. Un dato indubbiamente preoccupante, soprattutto dopo una rivoluzione come quella dei gelsomini. Forse nella decisione di questi giovani terroristi ci sono anche motivazioni economiche, con oltre il 30 per cento di disoccupazione».
La vicina Libia è un focolaio pericolosissimo: «Sicuramente la Libia, dalla caduta di Gheddafi, è stata abbandonata a sé stessa. C’erano enormi magazzini di armi nel deserto, e gran parte sono finiti in mano ai terroristi di tutti i generi, anche Boko Haram, al-Qaeda e l’Isis. Bisognava raccogliere le armi, ma non è stato fatto. I confini desertici con la Libia non possono essere controllati, sono troppo lunghi».
L’Europa? «Deve mostrare solidarietà efficace sia sul piano economico sia della lotta concreta contro il terrorismo. È un interesse comune, non è una scelta facoltativa. È un’emergenza che richiede un agire comune e immediato».
Mentre i venti di guerra soffiano ovunque nella regione – i risultati delle elezioni israeliane accentuano il muro contro muro tra israeliani e palestinesi, prima causa del disastro mediorientale –, l’attentato di Tunisi invita ad accelerare i processi diplomatici e politici per arginare l’avanzata del califfato. Ma con l’auspicio che l’arma militare sia usata solo quando necessario e con cognizione di causa. Troppe volte si è creduto negli ultimi vent’anni di poter risolvere il problema mediorientale e dell’islamismo radicali con le armi. Coi risultati che sono sotto gli occhi di tutti.