Sandro e Filippino
Simili eppure diversi. I due pittori in una rassegna a Roma. L’ombra del Savonarola.
La Pala di Badia a Firenze, anno il 1485 circa, racconta della Vergine che appare a san Bernardo. Lui, dal corpo nodoso sotto la veste ampia, viene interrotto da Maria: gli suggerisce come parlare di lei. Visione delicata. Sullo sfondo cieli, grotte, frati e tre angeli. Di lato, in ginocchio, il donatore Francesco Del Pugliese. La Madonna è bella, luminosa: come saranno sempre quelle di Filippino, vissuto senza madre. L’aria è quella rarefatta del mattino, quando le visioni sono più limpide e approdano alla coscienza ancora pura. Filippino Lippi, il figlio di fra’ Filippo, è giovane, ma il suo stile è già compiuto. Linea dolce e un po’ nervosa, forme plastiche, colori ricchi, amore per i dettagli. C’è l’amico-rivale Botticelli (negli angeli), la minuzia dei Fiamminghi, la soavità di fra’ Angelico: la tradizione pittorica del Quattrocento.
Ma, in Filippino vive una dolcezza trepidante, una fantasia appena appena controllata, che è la cifra del “suo” rinascimento. Non è distante da quella del Botticelli con cui, orfano precoce, è cresciuto. Chi osserva, in questa mostra preziosa perché essenziale, l’Adorazione dei Magi di Sandro vi nota uguale l’amore per la linea musicale, i colori smaglianti, i dettagli fisionomici e paesaggisti curati con amore.
Sono gli anni dal 1470 al 1490, quando a Firenze i banchieri Medici finanziano, a fini propagandistici, l’arte e la cultura e di fatto governano la repubblica (fenomeno antico e attuale, come si nota). Sandro e Filippino gravitano nella loro orbita. Il primo offre visioni armoniche di miti pagani interpretati in chiave cristiana (La nascita di Venere, La Primavera) e Madonne malinconiche. Filippino, che ha il coraggio di terminare gli affreschi di Masaccio, incompiuti, nella Cappella Brancacci – un confronto riuscito – è raffinato come Botticelli, ma la sua fantasia tende a superare l’eleganza, manifestando una ipersensibilità irrequieta. I tre arcangeli e Tobiolo sono una tavola giovanile, memore dei Pollaiolo, certamente, ma la danza di questa passeggiata sopra i monti tradisce un senso di ansia, di respiro corto.
Quando Filippino scende a Roma nel 1488 a decorare la Cappella Carafa in Santa Maria sopra Minerva – l’impresa maggiore della carriera – si distanzia da Sandro. Libera la fantasia, che si vivacizza in angeli danzanti in ghirigori nel vuoto del cielo, in figure mosse in modo espressionistico, ben oltre le citazioni classiche. Filippino “supera” l’armonia rinascimentale, pur senza lasciarla del tutto, come rivelano le pale d’altare, ben costruite dentro paesaggi infiniti.
Ma quando negli anni Novanta a Firenze appare Girolamo Savonarola, Sandro e Filippino restano sconvolti (e anche Michelangelo). Il frate non è solo un predicatore apocalittico, segna in anticipo di decenni la “svolta” di un’epoca dalla tranquilla esaltazione classica alla scoperta, più moderna, dell’angoscia.
I due amici reagiscono in modo diverso. Sandro si ripiega in una triste meditazione sul dolore, tornando al passato, (la Derelitta di Roma), Filippino acuisce la sensibilità, ma non si deprime. Anzi, si fa eccessivo, prebarocco. Il Cristo morto del 1500 è una preghiera tenera di colori e di luci, un pianto silenzioso. Mentre nelle altre tavole sacre, i santi sono contorti, ingrigiti in linee nodose. Filippino abbonda nei dettagli di rocce, fiori, alberi, prati: è una fantasia sbizzarrita, un “troppo” per esorcizzare l’ansia religiosa. Sembra che voglia finalmente “dire tutto”.
La tavola di Bologna del 1501 col Matrimonio mistico di santa Caterina mostra sentimenti ansiosi, eccesso di dettagli, luci chiare. Sembra di intravedere l’ultimo Raffaello, Parmigianino, Lotto. Cioè i pittori dell’inquietudine moderna, già all’orizzonte.
Filippino ha aperto la strada. Per questo oggi appare tanto attuale.
Filippino Lippi e Sandro Botticelli nella Firenze del ’400. Roma, Scuderie del Quirinale. Fino al 15/1 (catalogo 24 Ore Cultura).