Sandro Botticelli Un mistico?

C’è qualcosa che ci sfugge in Sandro Botticelli. Considerato, a ragione, un grande del rinascimento fiorentino, un maestro della linea, un cultore appassionato della bellezza, ed anche un mistico ossessionato dal Savonarola nell’ultima – decadente (?) – fase della sua vita artistica. Quando il pittore delle Veneri e delle Madonne, in bilico fra paganesimo e cristianità, sceglie decisamente quest’ultima, in un’accezione simbolica esasperata. Certe volte però è sufficiente una rassegna di poche, scelte opere, e un allestimento sobrio che favorisce l’ascolto, a rovesciare la prospettiva. Sembra di comprendere meglio cosa si agiti nella mente di un artista, quale sia il suo vero ideale di bellezza, come lo insegua, e senza cedimenti: una riscoperta, in definitiva. Botticelli, è noto, insegue l’armonia. Una ricerca ancora giovanile, nelle tavolette con Giuditta e Oloferne, dove la linea del Pollaiolo, così risentita, si stempera nella descrizione dell’alba mediante un uso del colore che, come il passo dell’eroina, è felpato. La natura, Sandro la ama fin da subito, prima ancora del vertice della Primavera e del suo tappeto fiorito, e la indaga, fiore per fiore, come Leonardo: ma in una visione soprattutto lirica e contemplativa, più che scientifica. Botticelli è stato a scuola dall’orafo Verrocchio, e indugia nel descrivere gli ornati: tutto per lui è prezioso, perché tutto, se amato, è bello. È questo amore che, con la sua natura così sensibile, lo porta a sintetizzare nella figura femminile l’idea stessa di armonia. Botticelli crea così un tipo di donna che, se arriva da Filippo Lippi – e le prime opere lo testimoniano – e poi continua in Filippino Pontormo e Bronzino (cioè sino a metà Cinquecento), pure ha una natura così particolarmente aristocratica da essere unica nella storia della pittura italiana. C’è un sentimento si direbbe trasumanato con cui questa bellezza è considerata: qualcosa di eternamente innocente, verginale, sempre intangibile e sempre fisicamente vera. Sembra il filo conduttore anche del Botticelli frescante, sia a Firenze come nella Cappella Sistina: soli- dità di forme, rigore prospettivo, capacità narrative fluide non mancano. Ma Sandro ha bisogno di soste dell’anima: e le trova, ad esempio, nel gruppo delle Figlie di Jetro, in cui la musicalità della linea, che cinge la purezza cromatica, rivela nelle tre donne giovani il suo anelito più sincero. Una tensione, insomma, ad un’arte dove – come nel paradiso dantesco – tutto sia luce e musica: una visione mistica, di per sè, perché il pittore, cosciente o meno, è sospinto istintivamente verso l’invisibile e l’ineffabile da rendere tuttavia visibile, parlante, inscrivendolo in un’atmosfera di grazia: affettuosa ed anche un poco malinconica. Nei tondi con le Madonne, ad uso della devozione privata, pare voglia catturarla, pur nel rammarico di non riuscire ad afferrarla del tutto. Ecco la Madonna adorante il bambino del 1482 circa, una tempera poco nota, ma sublime. Grazia e delicatezza si armonizzano nel profilo purissimo della Vergine e nel roseto che la circonda: simbolo e realtà, calore cromatico ed eleganza delle forme: la meditazione sulla Passione è vista con l’ottica contemplativa di una natura già risorta. La grandezza di Botticelli sta nel risolvere contenuto e forma in una poesia degli affetti, dolcissima e trattenuta, di cui centro focale è il volto della Vergine: un tipo di bellezza ove si unisce un ritratto reale ed una idealizzazione interiore, apparizione e raccoglimento insieme. È lo stesso clima che circola nella Primavera o diventa elogio del pudore nella Venere: cambia il soggetto, ma identica è l’aria poetica, di manifestazione teofanica. Il soggetto sta assorto entro la linea e invita noi che lo guardiamo – sia esso sacro o profano – a rientrare in noi stessi, grazie al su o atteggiamento di quiete totale. Di qui, il fascino particolare dell’arte estatica botticelliana, che sembra quasi strano per un pittore spesso indicato come rappresentante dell’indirizzo paganeggiante del rinascimento; dimenticando che la suggestione della filosofia neoplatonica nell’ambiente mediceo da lui frequentato non poteva che accrescere il naturale indirizzo spirituale. Si osservi la Madonna del padiglione, del 1493, anno savonaroliano. Un fremito attraversa il tondo raffinato, solleva le vesti degli angeli e penetra nel paesaggio lontano. È certo accresciuta l’ipersensibilità botticelliana a contatto con la predicazione di fra’ Girolamo. C’è un vento nervoso che arriccia il dipinto. Ma essa è presente da sempre: dalla giovanile Fortezza alle mature tavolette con le Storie di Nastagio degli Onesti. Ora si manifesta più liberamente, sotto la spinta di un’accelerazione sentimentale ed emotiva, naturale in un artista del suo temperamento. Nessuna involuzione o stasi. La bellezza si libera anche da sé stessa, da com’era prima concepita, in un percorso di astrazione, di sintesi superiore, tipico della maturità dei grandi artisti. La celebre Calunnia è una luminosa metafora dell’unione fra bellezza e verità. Sullo sfondo di un paese che non c’è – il cielo ha il chiarore metafisico che più tardi ritroveremo nel Tondo Doni michelangiolesco o in De Chirico – il dramma allegorico si consuma in una sacra rappresentazione dove la Verità – un casto nudo femminile che indica l’Alto – si contrappone alla furia della Calunnia. Il chiarore è abbacinante in tutta la gamma cromatica, dal verde al blu al bruno. Medesima libertà espressiva anima il Compianto, ove l’incurvarsi delle figure in linee annodate, portano ad una dissonanza musicale che è dolore contenuto-gridato in un eccesso di struggimento: l’anima di Sandro ora è tutta scoperta, senza allegoria: è nata una nuova forma di armonia. Eccola nella famosa Natività mistica, 1501, dove il pittore recupera quasi la bidimensionalità, il decorativismo tardogotico. La tempesta, sotterranea, è in superficie placata. Sandro – in anni di esasperazione politica e religiosa – prevede un futuro apocalittico: il futuro sacco di Roma? La tela è un canto alla concordia. Un’aurora boreale incornicia le danze degli angeli bellissimi e quella Vergine adorante, segno della bellezza femminile amorosamente capace di manifestare la salvezza al mondo. È la grande donna-madre, archetipo onnipresente in Sandro: oggetto della sua poesia, in una visione ormai tutta aperta. Naturale è perciò in seguito l’approdo botticelliano al Paradiso di Dante. Lo stile è identico, un lirismo sconvolgente ad affermare una sete di luce, con una capacità descrittiva e trasfigurante in cui ora il disegno diventa materia spirituale. Ha r a g g i u n t o , Sandro, la Bellezza incorruttibile? Forse Michelangelo lo invidiava per questo, lui che la cercava col marmo? Certo, Filippino – allievo e poi maestro autonomo – l’aveva intuito. La Visione di san Bernardo (1484 ca) è nella stessa linea di ricerca di Sandro. Natura, luce, estasi. Solo che il misticismo di Filippino è di altra tempra. È fin dall’inizio tutto scoperto, dissonante nel patetismo dei personaggi, nel decorativismo eccessivo delle sue scene. È sincero, Filippino, ma troppo emotivo, come un Pontormo e più tardi un Rosso. La sua è una sensibilità già barocca, addirittura, che lo fa un grande precursore. Il cammino di Sandro è più a cerchi concentrici, che dal nucleo primitivo della grazia si allargano ad una Armonia sovra-razionale: per questo i suoi disegni della Commedia, a ben vedere, sono un esito altissimo, non solo personale, ma dell’arte come visione mistica delle cose. :

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