San Suu Kyi presidente o garante? Obama in Myanmar
Barack Obama ha incontrato per la seconda volta il leader dell’opposizione e premio Nobel per la pace 1991, Aung San Suu Kyi, presso la residenza di quest’ultima, non lontano dall’Ambasciata statunitense a Yangoon, la capitale economica del Myanmar. In questi frangenti emerge il miglior Obama, quello che si batte per la democrazia dei Paesi emergenti. Stavolta gli abbracci sono stati più «sofferti e vicini», come i suoi commentatori hanno detto, come a dire che la vicinanza non esime dal percorrere una strada tortuosa. Agli Usa preme il Myanmar per l’importanza strategica e le ricchezze del Paese, per il processo democratico iniziato dopo più di 60 anni di guerra civile.
Come Obama ha affermato, «il processo democratico in Myanmar è sì iniziato, ma non è ancora irreversibile e non seguirà una linea retta». Parole che descrivono bene la situazione politica del Paese. Aung San Suu Kyi non ha, al momento, la possibilità di partecipare alle elezioni presidenziali nel 2015, in quanto nel 1971 sposò Michael Villancurt Aris, un cittadino britannico deceduto nel 1999, e col quale ebbe due figli, Alexander e Kim Aris, che vivono fuori del Myanmar. La costituzione vieta, infatti, ai cittadini di candidarsi alla presidenza se sposati con stranieri. Una clausola che non sarebbe mai stata introdotta in nessun Paese democratico, in quanto discriminatoria. Ma non per chi comanda in Myanmar, che non vuole che la premio Nobel diventi presidente.
È evidente che se la Suu Kyi, emblema della resistenza ai militari ed ora icona del processo democratico del Paese, partecipasse all’elezione, la sua vittoria sarebbe quasi scontata, nonostante il calo dei consensi a lei attribuiti. Forti sono le resistenze da parte dei militari all’ascesa alla massima carica istituzionale del Myanmar di Aung. Il lungo periodo di guerra civile, prolungatosi dal 1947 (anno in cui fu ucciso il padre di Aung San Suu Kyi, il generale Bogyoke An San) fino a pochi anni fa, non è stato dimenticato e forse è impossibile che lo sia, anche perché molti degli attori di tale conflitto siedono oggi in parlamento, a Nay Pyi Taw, la capitale del Myanmar, in abiti civili naturalmente.
Cosa potrebbe fare Aung San Suu Kyi qualora fosse eletta presidente? I dossier sulle operazioni militari, che in realtà nascondono veri e propri crimini contro l’umanità, sono ampiamente documentati e i crimini restano impuniti. Altre questioni spinose sul tavolo politico sono il dramma dei profughi rohingya e soprattutto la sanguinosa questione della lotta interna tra musulmani e buddhisti, mai risolta e forse ancora irrisolvibile, senza dimenticare la guerra tra le varie etnie che compongono il Paese, come i karen per esempio, che, ancor oggi sono in conflitto col governo centrale.
L’euforia degli investitori stranieri che accorrono in Myanmar per accaparrarsi le risorse naturali del Paese e la mano d’opera a basso costo cozza contro una situzione nazionale tutt’altro che pacifica, pronta a esplodere da un momento all’altro. Alcuni analisti politici della regione si pongono così domande del genere: è questo il momento giusto per Aung San Suu Kyi d’essere eletta come presidente? Avrebbe la capacità politica di tenere insieme il Paese? Il suo ruolo di “moderatore e garante” di un processo democratico sicuramente iniziato in Myanmar, ma non ancora completato. Non è forse la funzione che più le si addice?