San Pietroburgo ferita
La confusione è stata tanta, ma anche la dignità di una popolazione abituata alla durezza della vita e che da tempo si aspettava qualche attacco nella città-simbolo della Russia putiniana. La bomba scoppiata nel metro, un’opera d’arte vera e propria, tra le stazioni di Sennaija Ploshchad e Tekhnologicheskij ad opera di un kamikaze di nazionalità ancora incerta (si parla ora di un kazako) riporta la Russia al centro del dramma terroristico di matrice jihadista.
Al solito, le notizie si rincorrono, la polizia e i servizi sono al lavoro, ben presto – come spesso accade in Russia – si saprà tutto, si conoscerà l’identikit e l’identità dell’attentatore, si scoprirà la matrice che sta alla base dell’atto terroristico, e poi si riprenderà la vita normale. I misteri legati ai servizi segreti russi (efficienza estrema e torbidi margini nella sua azione) sono proverbiali, sin dai tempi di Fedor Dostojevski (la piazza sotto la quale è scoppiata la bomba è raccontata in Delitto e castigo), e non solo in quelli attuali di Anna Politkovskaja (la giornalista uccisa da non si sa chi per le sue indagini sulla Cecenia e sulla regione ciscaucasica).
Restano alcune certezze: la solidarietà mondiale col popolo russo c’è; la difficile posizione russa nello scacchiere mediorientale, in particolare in quello siriano contro l’Isis, certamente espone la federazione ad atti di rappresaglia; resta l’instabilità caucasica, per via dei tanti movimenti indipendentisti che operano nella regione; resta pure il potere crescente di un jihadismo che colpisce come e dove vuole, perché tutto è diventato bersaglio; resta, infine, il riavvicinamento Russia-Usa che può essere grandemente favorito dalla comune lotta contro il terrorismo.