San Lazzaro degli Armeni
In questo quinto centenario della stampa a Venezia del primo libro in lingua armena (1512), è d’obbligo, per chi visita la città lagunare, recarsi a San Lazzaro degli Armeni col vaporetto n. 20. Questa piccola isola ad ovest del Lido, che si annuncia da lontano col caratteristico campanile dalla copertura a bulbo orientaleggiante, è occupata in parte dalla chiesa-convento dei padri mechitaristi (un complesso di edifici risalenti ad epoche diverse) e in parte da un giardino ricco di pini, cipressi, cedri e ulivi. Che sia un lembo d’Armenia trasferito in Italia, lo si intuisce, già accostandosi all’imbarcadero, dallo yacht sul cui fianco spicca la scritta “Armenia” e, una volta sbarcati, dal melograno (l’albero nazionale armeno) e dal khatchkar in basalto (la tipica croce armena) sul piazzale dell’approdo. Qui si è accolti anche dalla statua bronzea dell’abate Mechitar di Sebaste, fondatore della congregazione che da lui prende il nome e grande sostenitore dell’unità della Chiesa.
Oggi la guida del piccolo gruppo di cui faccio parte è affidata ad una giovane signora armena, Zoya Karapetyan: durante la visita alla chiesa, al bellissimo chiostro porticato, al refettorio e alle sale museali, ci illustra con gestualità e partecipazione vivaci gli inizi lagunari di questa comunità, risalendo al 1717, anno in cui il Senato della Serenissima donò questa briciola di terra, già sede di un lebbrosario, ai monaci armeni esuli dalla Morea invasa dai turchi, giunti aVenezia al seguito dell’abate Mechitar.
L’isola rifiorì grazie ai lavori di restauro, ristrutturazione e nuove costruzioni intrapresi dai religiosi, che riuscirono a ingrandirla quattro volte con terra di riporto fino all’attuale estensione di tre ettari. Non pago di ciò, quest’uomo dotato di una fiducia assoluta nella provvidenza divina avviò una intensa attività editoriale, dedicandosi lui stesso a tradurre da diverse lingue testi scientifici, letterari e religiosi. Anche dopo la sua morte, l’ambizioso progetto continuò a svilupparsi grazie alla fondazione in loco di una tipografia poliglotta (1786). Fucina di spiritualità e cultura, San Lazzaro operò in prima linea per contribuire, dopo secoli di decadenza, alla rinascita armena. E solo perché la congregazione venne considerata un’accademia letteraria il monastero scampò alle soppressioni napoleoniche degli ordini religiosi.
Testimoniano questo glorioso passato la biblioteca monumentale di circa 200 mila volumi, la sala climatizzata contenente 4500 preziosi manoscritti antichi, anche miniati; la pinacoteca con dipinti di sommi artisti quali Palma il Giovane, il Ricci, il Longhi, il Tiepolo; le altre numerose opere d’arte disseminate nel monastero, cui vanno aggiunti reperti arabi, indiani ed egiziani raccolti dai monaci o ricevuti in regalo: tra questi non passa inosservata la singolare mummia di Nemenkhet Amon, racchiusa in una sontuosa guaina di perline di vetro colorate.
Qui viene mostrata la stanza ancora intatta dove soggiornò nel 1816 lord Byron per imparare l’armeno. Pare che il poeta gradisse molto la profumatissima marmellata di petali di rosa che i monaci producono tuttora grazie ai rosai coltivati nell’isola.
Oggi è domenica. Rientro nell’armoniosa chiesa di origine gotica, ma ricostruita nel XIX secolo, dove riposa l’abate Mechitar, per partecipare alla messa delle 11. Il suggestivo rito cattolico armeno prevede, in alcuni momenti, la chiusura dell’ampia tenda rossa che delimita il presbiterio. Tra nuvole d’incenso, risuonano sotto la volta stellata gli inni cantati dai monaci. Una struggente nostalgia del Cielo.