San Girolamo nel sertão

Il deserto brasiliano ha ispirato al regista brasiliano d’avanguardia Júlio Bressane un insolito film sul santo dalmata che tradusse la Bibbia in latino
Sertão foto di Maria Hsu

Il sertão, ovvero il “grande deserto”, è una regione semi-arida che abbraccia molti Stati del nord est brasiliano e parte del Minas Gerais, a sud est del Paese. Costituito per lo più da bassopiani, con quote più elevate rappresentate sul confine orientale dal Planalto da Borborema, dalla Serra da Ibiapaba e dal Serro do Periquito, presenta per tutto l’anno una temperatura tropicale, spesso estremamente elevata nella zona occidentale. Piogge violente, rovinose, si alternano a periodiche gravi siccità. La flora è molto particolare: a questo clima estremo si adattano, infatti, solo cespugli bassi e contorti.

Questa immensa regione di aspra e affascinante bellezza ha dato origine ad una ricca ed originale produzione letteraria, tra cui capolavori come Brasile ignoto di Euclides da Cunha e Grande Sertão di Joao Guimarães Rosa, entrambi tradotti in Italia. E in anni recenti ha fatto da scenario per un film su san Girolamo diretto da Júlio Bressane, uno che è stato definito “il più ateo dei registi brasiliani”: film che ho appena fatto in tempo a vedere, in quanto subito è stato ritirato dalle sale.

Intanto, cosa ha spinto questo regista sperimentale niente affatto legato ai canoni del cinema hollywoodiano (per intenderci) ad affrontare una figura del genere? Come si sa, questo santo dalmata, contemporaneo di Agostino di Ippona, ha compiuto un’opera titanica di inculturazione, traducendo dal greco e dall’ebraico la Bibbia in latino, la lingua corrente di allora. E non l’ha soltanto tradotta. Prima ancora, soccorso dalla sua enorme erudizione, ha dovuto stabilire, fra le tante versioni in circolazione spesso piene di errori, quella più attendibile.

In un’epoca di crisi che vedeva l’impero romano sfaldarsi per motivi interni ed esterni (si pensi alle invasioni barbariche), la Chiesa affidò la salvezza della civiltà alla Parola rivelata, resa finalmente accessibile a tutti.

Questa Parola apportatrice di luce, ordine e civiltà in mezzo al caos dominante (così come la Parola di Dio creò dal nulla tutte le cose e diede ordine al caos primitivo) deve aver affascinato Bressane, in riferimento anche alla crisi epocale in cui si dibatte oggi l’umanità.

Un regista hollywoodiano avrebbe ambientato la storia nei luoghi reali – il deserto della Palestina –, inscenato immagini di decadenza, di barbarie e di violenza, senza tralasciare – a proposito delle tentazioni del santo – di rendere in maniera esplicita le visioni oscene che lo perseguitavano talvolta nel deserto.

Bressane no: sceglie sì il deserto, ma quello brasiliano, il sertão, che è molto differente dalle immagini turistiche ben note dei deserti nordafricani; un ambiente dai colori e dalla vegetazione inusitati, con rocce particolari che sembrano meteoriti piombati dal cielo oppure scudi sotto cui ripararsi dall’infuriare di qualche cataclisma, tra il sibilo lamentevole del vento… E ciò rende con grande efficacia i luoghi orridi e strani nei quali i padri del deserto si rifugiarono per tentare la loro scalata a Dio: realtà che a noi, cristiani del XXI secolo, sembra così lontana, ma che non per questo va giudicata con la mentalità di oggi. I padri e gli asceti del deserto raffigurano infatti un momento della vita di Gesù – i suoi quaranta giorni di preghiera e tentazione nel deserto – che sono stati una tappa della Chiesa e, in modi magari diversi, ricorrono nella vita di ogni uomo che vuol essere discepolo di Cristo.

La stessa scelta di evitare i primi piani (tranne, mi sembra, una volta sola), ma di mostrare sempre le figure immerse nell’ambiente e riprese a volte in maniera insolita, con scorci arditi, vuol forse esprimere la particolarità di un mondo che può sconcertarci, disturbarci anche (e questo, infatti, sembra uno degli intenti del regista: scuotere lo spettatore e indurlo a farsi domande).

Tutta la storia è trattata in modo scarno, degno dell’asceta che è stato Girolamo: dalle sequenze “romane“ realizzate in interni suggeriti da pochi elementi, alle scene dove si vede la comunità monastica femminile diretta dal santo, che hanno la plasticità e l’intensità dei cori greci, ai dialoghi ridotti al minimo. Un “risparmio“ mirato a ricondurre la storia all’essenziale.

Un elemento importante, a mio avviso, è la presenza del leone. Storia o leggenda vogliono che san Girolamo, durante il suo soggiorno nel deserto, abbia curato un leone togliendogli una spina dalla zampa, e che per riconoscenza la belva sia rimasta presso di lui come un gattone domestico.

In effetti la figura maestosa e placida del leone (tranne in un’occasione in cui ruggisce inquieto) accompagna Girolamo perfino a Roma. Evidentemente è un simbolo. Il leone simboleggia il deserto, che Girolamo chiama suo “paradiso“ a cui anela sempre di fare ritorno. E simboleggia anche l’impetuosità e la violenza del suo temperamento, che in qualche caso affiora, proprio come quei ruggiti del leone.

Straordinario è il fatto che Girolamo abbia compiuto la sua opera di traduzione della Bibbia non in una biblioteca dell’Urbe o di un’altra città dell’impero, ma nella solitudine del deserto. Ciò mi sembra voglia sottolineare la realtà del corpo mistico, dove un membro – anche se sembra isolato – vive e lavora a vantaggio di tutti gli altri.

L’impressione personale, dopo aver visionato questo San Girolamo “brasiliano”, è stata di aver “incontrato“ un grande santo a cui dobbiamo moltissimo. Questo – e non è poco – emerge dal lavoro dell’“ateo“ Bressane, al quale penso dobbiamo essere grati.

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