San Basilio, Roma è le sue periferie
Il centro di Roma è di immensa bellezza. Ma è raro trovarvi dei residenti. Prima del processo espulsivo promosso, dagli anni ‘50, da un insaziabile mercato immobiliare in cerca di negozi e uffici, ci aveva pensato il regime fascista a “sventrare” intere zone dell’Urbe a fini scenografici (dai Fori imperiali a via della Conciliazione) con la ricollocazione forzata degli abitanti in aree rurali. Nasce, così, negli anni ’30, San Basilio.
Solo 15 km dal centro ma un altro mondo, le casette per gli sgomberati costruite con materiale povero ma con tanto di orto, a formare, dall’alto, il disegno della parola Dux. Il nocciolo della “borgata” verrà abbattuto e modificato nel dopoguerra. Arriveranno i fondi del Piano Marshall, ma su questa parte nord orientale della Capitale peserà la scelta di concentrarvi le abitazioni per i nuovi sfollati del boom economico. Un enorme cantiere in mano ai “palazzinari” che, spesso in maniera abusiva e senza un piano urbanistico ordinato, hanno intercettato il bisogno delle famiglie migranti dal Centro Sud.
Il quartiere odierno, il numero 30, con 22 mila abitanti, delimitato dal Grande raccordo anulare, è situato tra Nomentana, Tiburtina e via del Casale di San Basilio. Racchiude anche le zone di San Cleto, Casal Tidei e l’area più recente, Torraccia, da dove si osserva il tratto slabbrato della contesa tra città e campagna.
La Tiburtina, antica via proiettata verso l’Adriatico, è stata per anni la “cintura rossa”, il colore della militanza comunista di molti lavoratori delle tante industrie allora in piedi. Oggi resistono le grandi imprese pubbliche dell’Aerospazio e degli armamenti oltre a un fitto tessuto di aziende più piccole, molto specializzate. Ma alcuni grandi stabili sono vuoti o in rovina. Come l’enorme fabbrica della Penicillina che domina la Tiburtina nell’incrocio di svolta verso San Basilio.
Non è un luogo percorribile a piedi, così come il dedalo di vie che si dipanano ai lati della consolare. Le macchine passano veloci, tra sbarre di cemento di lavori incompleti da anni, anche la domenica piovosa di un 4 ottobre, festa di san Francesco. Davanti allo spettrale rudere alcuni giovani di “Friday for future” compiono un atto dimostrativo per chiedere la bonifica del sito da destinare ad abitazioni dignitose per i tanti sfrattati che nella “città eterna” non hanno alternative all’occupazioni di strutture inutilizzate.
La pandemia aggrava lo stato di necessità di tante famiglie già infettate da un altro virus potente, quello della precarietà che costringe a lavori instabili, discontinui e informali. I “bravi ragazzi” scesi nelle piazze per dire che la Terra è in pericolo, un presentimento dell’arrivo del Covid-19, scoprono la dimensione del conflitto nelle periferie grazie al rapporto maturato con il Centro popolare San Basilio. Una realtà attiva su diversi fronti come il doposcuola in un quartiere a forte abbandono scolastico. In pieno lockdown hanno assicurato i pacchi di alimenti a chi non ne aveva.
Ma anche in tempi normali tra i caseggiati con le saracinesche chiuse è difficile fare la spesa senza un’auto a disposizione. Il criterio del Centro è quello di partire da un bisogno, ad esempio le cure sanitarie ostacolate dai tagli al servizio pubblico, per sviluppare reti di mutuo aiuto e incidere sulle cause dell’esclusione. Fanno parte di una storia che ha come simbolo un giovane di Tivoli, Fabrizio Ceruso, morto a 19 anni in uno scontro con la polizia nel 1974 durante una grande rivolta per il diritto alla casa.
L’origine del nome del quartiere non è chiara, ma istintivamente un grande murales, tra quelli che attirano i visitatori da queste parti, rappresenta un barbuto san Basilio, vescovo greco martire dei primi secoli, che spezza un lucchetto. È dedicato a Ceruso come trama di un tessuto comunitario dentro un territorio spesso sbrigativamente citato solo per essere una piazza dello spaccio di droga.
Nessuno può meravigliarsi degli effetti di un pesante disagio generato dalla metropoli diseguale dove, sulla Tiburtina, tra vie senza luce, pullulano luccicanti palazzetti dell’azzardo quale unica via di svolta possibile. Eppure Roma, come afferma l’urbanista Carlo Cellamare, non è più il “centro”, ridotto a vetrina, ma la sua periferia con le associazioni, i comitati, le “pratiche non organizzate” che si prendono cura dei quartieri e fanno cultura.
Lo dimostrano le aree verdi strappate alla speculazione edilizia grazie ad iniziative nate dal “basso”, dall’enorme parco della Caffarella sull’Appia a quello di Aguzzano, 60 ettari di campagna di fronte a San Basilio, con un casale, l’Alba 2, a disposizione per iniziative di «condivisione e partecipazione senza scopo di lucro e/o reddito».
Si tratta di una minoranza dentro contesti urbani spinti altrimenti verso l’anonimato che alimenta il rancore. Eppure sono i segni della riscoperta della città come bene pubblico. E qui la chiesa è, come sempre, presidio di umanità. Il parroco, don Stefano Sparapani, arriva da un altro “luogo di frontiera”, il Corviale, conosciuto per il palazzone eretto da un’utopia urbanistica finita male. Non si definisce un prete di strada ma che “sta in strada”. Si sente parte di “Sanbà”, dove non c’è spazio per il moralismo di fronte a persone esposte ogni giorno al disagio della marginalità.
Mutano i tempi, ma le contraddizioni esplose nel ‘74 in questa borgata restano, quindi, più vive che mai. Quell’anno avvenne una presa di coscienza collettiva sui “mali di Roma” grazie all’iniziativa dei cristiani che coinvolsero la città a mettersi in discussione sulle “attese di carità e giustizia” di borgate e quartieri. Non è venuto il tempo di riprendere quel discorso?