Saman, ancora una volta
Saman, ragazza pakistana diciottenne, rifiuta il matrimonio combinato dalla famiglia, come è di consuetudine nel suo Paese. Arrivata in Italia nel 2013, a 10 anni si trova esposta a un mondo diverso dal suo, vive nuove emozioni, probabilmente si affacciano alla porta della sua fragile adolescenza domande inattese a cui l’aria pakistana, che continua a respirare a casa sua, non può dare risposte. E quando arriva la proposta di matrimonio organizzato nel giro della parentela, Saman si ribella, si oppone ai genitori e ad una pratica che per lei non ha più significato. Sapendo a cosa va incontro, chiede aiuto e protezione, denuncia. Poi sparisce. Sospetti, indizi, rivelazioni convergono su ciò che è più che un’ipotesi, che cioè sia stata uccisa per difendere appunto l’onore della famiglia.
Ancora una volta è la donna che paga il fio di una società maschilista, come la storia di Hina di qualche anno fa, uccisa nel Bresciano dal padre. Si scatenano le reazioni mediatiche, si riapre il dibattito su una delle violazioni più moderne e crudeli dei diritti umani. La condanna è dovuta, deve essere spietata e lo è, condivisa dalle dichiarazioni dei giornalisti pakistani che precisano, in lingua urdu e in lingua inglese, che «non c’è onore nell’uccidere, come non c’è cultura nell’abuso».
Questo fatto abominevole della scomparsa di Saman riapre un capitolo tormentato che va affrontato se l’obiettivo non vuole essere solo l’indignazione, ma la volontà di fare qualcosa per fermare queste stragi.
La società pakistana è ancora ancorata a un sistema feudale e tribale, in cui la legge non è quella dello Stato, dove il diritto di onore è considerato un pilastro della società, dove, lo sappiamo, la situazione della donna è fra le più precarie e pericolose. Ma occorrono alcuni “distinguo” per non cadere nelle semplificazioni, rischiando equazioni ingiuste e rischiose (tutte le donne sono sfruttate, come tutti i pakistani sono terroristi…)
Entrando in un mondo che non conosciamo ci è richiesto invece lo sforzo di penetrarne la cultura, lasciandosi guidare da un modo di pensare e di vivere che è diverso dal nostro. Prendiamo appunto il matrimonio combinato. Consideriamo che le ragazze in molti casi, per esempio nei villaggi, non hanno una vita sociale che permetta loro incontri e conoscenze con i coetanei maschi. Il matrimonio combinato, per discutibile che sia, nella vita di milioni di famiglie è quella pratica con cui i genitori cercano il partito migliore per i propri figli. Si informano, si confrontano, si arriva a un accordo, si fanno incontrare i giovani, il tutto avviene sempre di più con il loro consenso. E spesso funziona. Non c’è costrizione o forzatura. Si può non capire, non condividere, è lecito ritenere cha anche questa pratica vada superata, ma non si possono mettere sullo stesso piano situazioni ben diverse: i casi delle spose bambine, delle figlie vendute dalla famiglia, i matrimoni forzati, le violenze sulla donna.
Dalle nostre parti occidentali questi fatti aprono, invece, altri capitoli: quello del modello di integrazione, quello del contributo e degli investimenti che le nostre società potrebbero offrire a Paesi come il Pakistan nel campo dell’educazione femminile, della sanità, di una promozione umana che sappia rispettare profondamente le diversità ma stimoli il pensiero critico, nel sostegno alle tante associazioni locali che lottano per i diritti umani e per l’emancipazione femminile dentro la propria società. E si potrebbe continuare.