Salviamo i bambini con la mano alzata
Maria ha sei anni e frequenta la prima elementare. Quando la maestra fa lezione, nella sua testa frullano miriadi di pensieri, di collegamenti, di nuove idee. Così ogni tanto alza la mano per intervenire. Sente l’urgenza di partecipare e di esprimere il suo punto di vista. Le parole sulla punta della lingua premono per uscire fuori. È ancora piccola e fa fatica a comprendere quale sia il momento opportuno per intervenire. La maestra ricorre allora a un antico sistema: la fa uscire dall’aula per qualche minuto, senza spiegarle il motivo, e intanto prosegue la sua lezione. Il metodo pare funzionare. Dopo qualche settimana l’insegnante mi convoca a scuola per dirmi soddisfatta che la bambina sta migliorando, che ora alza la mano sempre più di rado, rispetta le regole, parla solo quando interrogata.
Mentre la ascolto penso: «Ho allevato dei disadattati…». E io che ho abituato i miei bambini fin da piccoli a discutere durante la cena degli argomenti più vari, di politica ed economia, di un compagno di scuola, di un libro o di un film.
Marco ha vent’anni, è studente universitario del primo anno. Quando durante le prime lezioni domando alla classe perché stiano sempre in silenzio e non rispondano mai alle mie domande, novanta occhi mi guardano curiosi. Marco si fa coraggio e mi spiega che non è abituato a intervenire. Fin dalle prime esperienze scolastiche ha capito che è meglio stare zitti, ripetere la lezione senza discostarsi dal libro, indovinare quello che l’insegnante vuole sentirsi dire. L’obbedienza deve essere tornata una virtù – penso tra me –, la lezione di don Milani e quella sua idea di responsabilità da coltivare fin da piccoli, invece, forse deve essere passata di moda.
Non mi rassegno. Come ogni anno propongo ai ragazzi che la prima ora di ogni lezione sia dedicata a discutere di un tema. Se si sono dimenticati come si fa, possono sempre imparare a farlo. Settimana dopo settimana, vedo crescere in loro il coraggio di esporsi davanti a me e ai compagni, il gusto di contrapporre visioni, di cambiare idea, di imparare dagli altri. Spesso il tempo si dilata e la conversazione prosegue anche durante il pranzo.
Yesu è un ragazzo ebreo di dodici anni, è nato in Palestina, ha solo un anno di più del mio primo figlio. Si è formato alla scuola rabbinica, quella che da secoli abitua i ragazzi a leggere le scritture e spiegarne il senso ai saggi e agli anziani della comunità. È bello e anche un po’ saccente e soprattutto non ha paura di esporsi e di prendere la parola. Da duemila anni, quel ragazzo ha ancora qualcosa di nuovo da dire e le cose più importanti non ha mai smesso di rivelarle ai piccoli.