Salvataggio in mare

Lavoro come medico e alcuni mesi fa ho avuto la possibilità di andare a Lampedusa per svolgere assistenza sanitaria sulle motovedette della Guardia Costiera che recupera i migranti in mare. Come si può immaginare, sono stati momenti molto forti, dolorosi, ma vedere, “toccare” questi fratelli per me è stato, innanzitutto, un dono: è stato sperimentare una vicinanza continuata di Dio che scorgevo non solo nei migranti, ma nei colleghi, nei lampedusani, un’occasione unica per costruire fraternità.
Un bimbo in braccio
Inizio col raccontare la mia prima uscita in mare: sono con un’infermiera giovane, alla sua quarta missione: subito mi dà un po’ di dritte e, per prima cosa, consigli sul mal di mare, che comunque arriva e non mi lascia per tutte le 10 ore di navigazione. Poi, la notizia di un barchino alla deriva: non si sa di preciso la posizione, con quanti migranti, che tipo di imbarcazione sia: si spera, come mi dice un marinaio, che non sia di lamiera e perciò facilmente ribaltabile.
Quando arriviamo, l’operazione di accostamento è molto delicata. Il personale di bordo cerca di comunicare con i migranti di varie lingue dell’Africa subsahariana, per dare indicazioni sul trasbordo: prima i malati, poi i bambini, poi le donne, che vanno a poppa; infine gli uomini, che vanno a prua. In tutto sono circa 105 – se ne aggiungeranno altri 88 recuperati poi più in là – che si sistemano seduti, stretti, bagnati, stremati e “rossi” per la ruggine del barchino di lamiera.
Diamo le prime cure, ma ancora non possono bere per non peggiorare il loro mal di mare: già, proprio quel mal di mare che ho anch’io e che mi dà la possibilità di provare, per un’infinitesima parte, quello che questi miei fratelli vivono. Nella concitazione del momento, anche se sono K.O., mi trovo fra le braccia un bimbo di un anno appena staccato dalla mamma che piange disperatamente. Riesco a fargli un sorriso, a cullarlo e lui si calma. È un momento davvero particolare per me! Mi tornano alla mente parole sentite da papa Francesco, il cui senso era quello di andare dai sofferenti, non solo per dare, ma per ricevere da loro una carezza, come se fosse Gesù stesso a darla. Ora quel bimbo, che mi fissava tranquillo, mi aveva appena dato quella carezza.
Il primo giorno di missione
Un passo indietro per raccontare il mio primo giorno di missione, come si chiama tecnicamente questo periodo di lavoro. Quando avevo saputo della necessità di personale sanitario a Lampedusa, il mio pensiero ritornava lì: ascoltare le notizie di quanto succede nel nostro mare, mi faceva spesso provare sgomento e impotenza, ma ora avevo la possibilità di fare qualcosa. Allo stesso tempo mi assalivano tanti timori: professionalmente sarò all’altezza? Reggerò lo stress o sono solo un’idealista? Ho cominciato a condividere con Dio, come con mio Padre, questa inquietudine; ma anche con altri di cui ho fiducia e ricevo un consiglio: «Parti tranquilla, perché l’importante è, prima ancora del lavoro, fare tutto con atteggiamento di servizio». E il primo giorno di lavoro cosa mi accade? Vengo assegnata ad un turno con la seguente mansione: fare le pulizie degli appartamenti. Così, con questa necessaria premessa, ho iniziato la missione.

L’inchino alla Terra
Un giorno, in 258, su un peschereccio che assomigliava ad un uovo che galleggiava deviato su un fianco, arrivavano dal Medio Oriente, molti già all’ennesimo viaggio dopo il rimpatrio: li abbiamo scortati fino al molo per assicurare assistenza sanitaria. Quando scendono in fila, scalzi, alcuni zoppicando perché seduti da troppe ore, si girano verso di noi e ci salutano con la mano. Qualcuno si ferma, si inchina per terra, la bacia: mi commuovo pensando alla terra come “cosa sacra” e ai tanti doni che ho ricevuto da Dio. Ora per me si tratta di restituirli a Lui nei fratelli e di fare un’operazione di giustizia verso chi ne è stato privato.
Lacrime e sorriso
Non posso dimenticare quella giovanissima donna incinta ‒ e come lei lo sono quasi tutte le donne che si mettono in mare ‒, che, quando le indico finalmente la costa, inizia silenziosamente a piangere con un lieve sorriso, fino all’arrivo. Quella vita nel suo grembo, in mezzo a quel dolore, è segno di speranza: mi parla di quel Gesù in croce che, proprio nel momento in cui si sente abbandonato, prelude ad una Vita nuova.
Quando tutti scendono, sulla barca rimane di tutto: scarpe, teli, sacchetti, camere d’aria (pseudo-salvagenti) e anche un foglietto di carta bagnato, scritto a mano, in francese: «Io cedo il mio pezzo di terra nel mio Paese (…) in cambio della traversata del mar Mediterraneo» e in calce le firme dei due contraenti. Questi fratelli perdono tutto per inseguire il sogno di vivere.
Isolani e isolati
Ogni tanto, in questa “zattera” di terraferma, lunga 11 km, che è Lampedusa, per qualche giorno scompare Internet perché l’elica di qualche nave di passaggio trancia i fili sott’acqua. È successo anche stavolta: funzionava solo il cellulare di alcuni soccorritori, per cui per essere reperibili, non potevamo allontanarci dal gruppo. Costretti a stare insieme, una volta è nato uno scambio sulle nostre scelte di vita, progetti, sulla fede e, nonostante la composizione molto varia della nostra squadra ‒ di convinzioni religiose e non, giovani e adulti ‒, mi colpisce l’immediatezza con cui ci ritroviamo unanimi sulla stessa passione per l’umanità sofferente.
E poi ci sono i lampedusani! Ormai da oltre 20 anni vivono sulla loro pelle questa realtà dei migranti e all’inizio sono stati capofila nell’accoglienza! Ho visto persone concrete, determinate, semplici, spesso con pochi mezzi, costrette a loro volta a migrare per insufficienti strutture sanitarie, di istruzione, lavoro. A volte si coglie un senso di isolamento e scoraggiamento, ma, nello stesso tempo, di consapevolezza di vivere in un luogo particolare che è la Porta d’Europa, nel desiderio di restituire a questa posizione geografica il senso più vero e umano.
Mi sorprende che alla fine di quest’avventura mi risuona dentro una frase del Vangelo del periodo pasquale sulla tomba di Gesù: «Chi cercate donne quaggiù, quello che era morto non è qui!», per una certezza sempre più solida che portare il Suo amore significa contribuire alla “resurrezione” dalle ferite di morte di tanti fratelli.